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 2016  dicembre 05 Lunedì calendario

Chi è Alexander Van der Bellen

Fausto Biloslavo per Il Giornale

«No pasaran» gridano simbolicamente in coro i radical chic con la puzza sotto il naso, che avevano lanciato l’allarme uomo nero in Austria. Norbert Hofer, il candidato di destra, non ce l’ha fatta al «terzo» turno delle presidenziali, dopo le comiche della colla sbagliata per le buste provenienti dall’estero. L’ex comunista, leader ecologista, Alexander Van der Bellen ha vinto confermandosi presidente con un distacco che sembra ben maggiore rispetto ai 30mila voti dell’elezione di maggio.
A prima vista la «marcia» populista nel vecchio continente alla conquista delle urne ha subito una Waterloo con il candidato austriaco. E sulle macerie della battaglia perduta sventola la bandiera blu a stelline dell’Unione europea. Non a caso il vincitore, Van der Bellen, aveva annunciato infilando la scheda nell’urna: «Queste elezioni non sono solo su due persone, ma anche sul fatto che l’Austria continui ad essere un membro stabile dell’Unione europea». In realtà non è proprio così per tre motivi: Hofer ha definitivamente sdoganato la destra a Vienna, pure agitando lo spauracchio propagandistico della «Oexit», l’uscita della Ue, non ci ha mai creduto veramente e le prossime tappe della marcia populista in Olanda, Francia e Germania potrebbero ribaltare le carte. «Comunque vada il voto, il Partito della libertà (Fpo), che appoggia Hofer ha già vinto. Un candidato moderato, che un anno fa nessuno conosceva, ora imperversa su tutti i media nazionali ed internazionali» aveva fatto notare alla vigilia l’analista Paolo Quercia. Nonostante i radical chic in servizio permanente, che si strappavano le vesti contro l’uomo nero, lo sdoganamento di Hofer e dell’Fpo è evidente anche nei contenuti. A parte retorica e propaganda, Van der Bellen, ha vinto spostandosi a destra. Fra i due candidati non era facile trovare grandi differenze soprattutto sullo stop alla Turchia nella Ue e sul contenimento dei flussi migratori.
Il vero cavallo di battaglia dell’ex comunista vittorioso è sempre stata la fedeltà cieca ed assoluta all’Unione europea, che però lo stesso Van der Bellen ammette sia da riformare nel profondo, come Hofer. Il candidato di destra, sull’onda lunga dello strappo dell’Inghilterra, ha cavalcato la tigre della «Oexit» ipotizzando un referendum sull’uscita dell’Austria dall’Europa unita. Nelle ultime ore prima del voto ha però lasciato da parte la propaganda euroscettica parlando solo di voler «riformare» la Ue. La verità, come sostiene Quercia, è che «la destra austriaca è l’unica in Europa pro euro, a differenza degli altri partiti populisti e favorevole a mantenere l’Austria all’interno della Unione».
Si pensava che l’effetto Trump e la sua elezione, considerata una vittoria dal Partito della libertà, avrebbe aiutato Hofer, ma la Casa bianca è lontana dall’Austria, che non ha mai amato particolarmente gli americani. La battuta d’arresto del candidato di destra spiana per assurdo la strada all’Fpo ed il suo leader meno diplomatico, Heinz Christian Strache, che già pregusta la rivincita alle politiche del 2018. Sulla graticola dei temi forti come immigrazione, disoccupazione e rapporti con l’Unione europea ci sarà proprio Van Der Bellen, che si ritrova un governo di «Große Koalition» fra gli storici partiti dei popolari e dei socialdemocratici già bocciati dagli elettori alle presidenziali.
Frauke Petry, la leader populista tedesca, ad urne ancora aperte ha lanciato un tweet non proprio azzeccato: «Un passo ulteriore per un’Europa migliore è possibile oggi. Tengo le dita incrociate per Norbert Hofer». La battuta d’arresto del «populista con fascino», come è stato definito dalla stampa inglese, non significa un effetto a catena nel resto d’Europa. Il prossimo anno i seguaci di Geert Wilders in Olanda sono accreditati dai sondaggi come primo partito. La sfida più grossa si giocherà con le presidenziali francesi, che vedono schierata Marine Le Pen.
Il suo Front national puntava su una vittoria di Hofer, ma forse anche Marine dovrà piegarsi di fronte a François Fillon, il candidato gollista che sposa molte delle tesi della destra. Idem per Petry con il suo «Alternativa per la Germania», che farà incetta di voti, ma difficilmente scardinerà l’inossidabile cancelliera Angela Merkel. I populisti, anche se non centrassero il colpo grosso, conquisteranno consensi o sdoganeranno una volta per tutte politiche tabù su migranti, Islam e rapporti con la Russia, come è successo in Austria. Per fermare la loro «marcia» l’Europa dovrebbe cambiare radicalmente. Una «mission (quasi) impossible» per i burocrati di Bruxelles ed i governi datati che li sorreggono.

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Paolo Valentino per Il Corriere della Sera

VIENNA Anche nel momento del trionfo — quello vero, chiaro e definitivo — non è riuscito a scuotersi di dosso quell’aria da intellettuale stralunato. L’eroe capitato lì per caso, appunto. Come quei vecchi campioni, che si ritrovano in una competizione non più loro, chiedono timidamente di provare e alla fine sbaragliano il campo, lasciando tutti con un palmo di naso.

Alexander Van Der Bellen, «Sasha» per gli amici, «il professore» per i suoi fan, sarà quindi presidente della Repubblica di un’Austria che si vuole ancora europeista, aperta, tollerante.

Che tipo di capo dello Stato intenda essere, Van der Bellen lo ha detto chiaro già ieri sera: «Il mio obiettivo è che per i prossimi sei anni, i cittadini che mi incontreranno per strada, in metropolitana o in paese, diranno “guarda il nostro presidente”, non il presidente». Un messaggio di riconciliazione, unito però a un richiamo al nocciolo antico, «i vecchi valori di libertà, uguaglianza e solidarietà» intarsiati nel suo codice progressista.

Certo è destino singolare, quello dell’ex ribelle anti-sistema, figlio della contestazione degli Anni Sessanta, che giunto alla maestosa età di 72 anni, si ritrova a incarnare l’ortodossia, impersonare la saggezza, indossare il mantello del salvatore di un’identità. Ed è un elogio della lentezza, il successo di un ex docente universitario, che non alza mai la voce e anche nei momenti più tesi di una campagna durata quasi un anno, non ha mai rinunciato ai tempi del suo ragionamento. Solo una volta, nel dibattito televisivo di giovedì scorso, il professore ha tirato fuori gli artigli, spazientito da una serie di calunnie e bugie su di lui e su suo padre, rovesciategli addosso dal suo avversario.

Ma in fondo tutta la vita di «Sasha» Van der Bellen è fatta di quelle che Paul Klee chiamava le harte Wendungen , le svolte brusche. Già inscritte nella sua nascita: «figlio di profughi» come ama dire, venuto al mondo nel 1944 da una famiglia aristocratica — il padre russo-olandese, la madre estone — fuggita dalla Rivoluzione bolscevica, prima verso il Baltico, poi verso il Tirolo, dove il nostro è cresciuto. È in questo passato «meticcio» che affondano le radici del futuro presidente, sin dall’inizio controcorrente nel rivendicare il dovere dell’accoglienza e dell’integrazione verso l’umanità dei disperati che bussa alle porte d’Europa.

Brusca la stagione della rivolta giovanile, brusco il suo approdo in politica, prima nei socialdemocratici, poi nei Verdi, di cui prese le redini nel 1997 e le tenne per ben undici anni. Anche lì, svolte drastiche. Non tanto per la sua eresia personale di ecologista senza bicicletta, gran fumatore e appassionato di auto veloci. Quanto per aver liberato i Grünen dall’ipoteca del «meglio rossi che morti», che ne aveva limitato l’influenza e i successi elettorali. Sotto la sua guida, i Verdi austriaci sono diventati il partito dei giovani nei grandi centri urbani, arrivando fino alla soglia del 10% dei voti e attestandovisi stabilmente.

Quando all’inizio dell’anno, dopo aver sposato in seconde nozze la deputata verde Doris Schmidbauer, Van der Bellen si era candidato alle elezioni presidenziali, da indipendente per i Grünen, molti avevano sorriso. Candidato di bandiera, era stato liquidato da alcuni. «Candidato giusto nel posto sbagliato», avevano detto i più generosi. Ma dopo il primo turno, l’ultimo a sorridere era stato proprio lui, il professore demodé con le giacche di tweed sempre troppo larghe e le cravatte di maglia sgualcite, uscito indenne dalla disfatta di socialdemocratici e popolari. Come Totti, il vecchio campione era entrato in campo e aveva fatto il numero.

È un po’ cambiato Sasha nei mesi successivi. I vestiti sono diventati grigi. Le camicie inamidate. Le cravatte di seta blu. Ha dovuto darsi un’immagine meno trasandata, onorando il ruolo di candidato della speranza, polizza d’assicurazione contro l’incubo di un presidente anti-europeista e xenofobo. Un’altra svolta brusca, affrontata con dignità e soprattutto senza mai cambiare linguaggio, contenuti e tempi: lenti, sicuri e vincenti.

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Tonia Mastrobuoni per la Repubblica

L’effetto Trump c’è stato. Ma ha agito da deterrente. Ha convinto gli austriaci a votare contro il contagio populista che sembra aver infettato ampie fette di elettorato europeo. Le prime analisi delle presidenziali in Austria parlano chiaro: il doppio shock delle elezioni americane e della Brexit ha indotto molti austriaci a votare per la continuità. È stato lo stesso Alexander Van der Bellen a riassumere in serata il significato di questa infinita elezione: «È un voto pro-europeo», per «la libertà, l’eguaglianza e la solidarietà ». Ma con la sconfitta di Norbert Hofer, il Paese che si è ribellato contro la destra populista ha vinto soltanto una battaglia. La guerra contro i populismi è ancora lunga. Anche in Austria.

Van der Bellen ha inoltre il compito non facile di riunire il Paese dopo una battaglia per la poltrona più alta della Hofburg che ha profondamente lacerato il Paese. La grande emergenza dei profughi dell’autunno del 2015 - l’Austria è stato per eccellenza il Paese di transito del milione di rifugiati giunto nel Nord Europa - ha rafforzato il partito del suo avversario, Norbert Hofer, fino a proiettarlo in cima ai sondaggi, ben oltre il 30%, dove resiste da allora.

Inutile il tentativo della Grande coalizione - socialdemocratici e popolari - di scimmiottare la destra populista della Fpö mostrando la faccia feroce sui migranti, ad esempio col blocco delle frontiere nei Balcani. L’emorragia dei voti dalle due “Volksparteien” tradizionali non si è mai arrestato. Ed è ormai un dato di fatto che anche i populisti di Hofer e Heinz-Christian Strache pescano elettorato in tutti gli strati sociali e sono da considerarsi a tutti gli effetti una Volkspartei, un partito di massa.

Barba incolta, sorriso sornione e camminata dinoccolata, il 72enne ex portavoce dei Verdi è stato invece fermo nel respingere la retorica anti profughi cavalcata dal suo rivale. Anche per la sua storia personale: figlio di un nobile russo di origine olandese e di un’estone, l’economista si è sempre definito un “figlio di profughi”. La famiglia arrivò in Tirolo durante la Seconda guerra mondiale per scappare dall’invasione sovietica dell’Estonia. Alla luce del suo passato, una delle gaffe di Hofer è stata in campagna elettorale definirlo «comunista». Van der Bellen ha avuto una brevissima parentesi socialdemocratica, ma è sempre stato nei Verdi.

Prediletto ieri soprattutto dalle donne (60%) e dai giovani (il 58% degli under 30) e nelle città, Van der Bellen - Sascha per gli amici - incarna la resistenza ai populismi, ma è appoggiato anche dall’establishment che molti in Austria percepiscono come intollerabilmente incrostato e impermeabile alle richieste di cambiamento che arrivano ormai da ogni strato della popolazione. Non a caso, per la prima volta nella storia, i candidati dei popolari e dei socialdemocratici sono stati buttati fuori al primo turno delle presidenziali. E pur essendo sostenuto dalla Grande coalizione, Van der Bellen ha beneficiato sicuramente del fatto di essersi presentato come un candidato indipendente, super partes.

Alcuni sondaggi in questi mesi hanno segnalato anche la volontà degli austriaci che il nuovo presidente interpreti il suo ruolo in modo tradizionale, come un ruolo di rappresentanza. Van der Bellen ha già detto che lo sarà. Hofer aveva promesso invece di spezzare questa lunga tradizione e di estendere i poteri del presidente della Repubblica, che in base alla costituzione del ’29 può arrivare a mandare a casa il governo. Con il voto di ieri, rifiutando il candidato della destra, gli elettori hanno anche scongiurato uno scenario di guerriglia quotidiana tra la presidenza della Repubblica e l’esecutivo.

Resta però lo spettro di nuove elezioni. La litigiosissima maggioranza che appoggia il cancelliere, Christian Kern, rischia di arricchire il già intasato anno elettorale europeo 2017 con un nuovo appuntamento. E con la Fpö in cima ai sondaggi, il rischio è che lo spettro del populismo cacciato dalla porta con le elezioni di ieri, rientri dalla finestra.

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Alessandro Alviani per La Stampa

Quella di ieri in Austria è la vittoria di un «figlio di profughi», come si autodefinisce Alexander Van der Bellen, contro un candidato che chiedeva invece di limitare l’arrivo di profughi in Austria. Van der Bellen è nato nel 1944 a Vienna da padre russo e madre estone. I suoi antenati, di origini olandesi, si erano trasferiti nel diciottesimo secolo nell’Impero russo. Nel 1919 la famiglia di suo padre aveva lasciato la Russia per paura dei bolscevichi e aveva trovato rifugio in Estonia. Nel 1940, con l’arrivo dell’Armata Rossa a Tallin, suo padre, un banchiere, decide di fare le valigie e all’inizio del 1941 si trasferisce insieme a sua moglie a Vienna.
Anche da lì, però, i Van der Bellen sono costretti a fuggire: all’inizio del 1945, con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa, la famiglia si trasferisce in Tirolo, nel Kaunertal, una valle immersa tra le Alpi dove il prossimo presidente austriaco è cresciuto. Un dettaglio che ha giocato un ruolo importante, sotto diversi punti di vista. Per intercettare anche il voto degli austriaci tradizionalmente vicini al partito popolare, Van der Bellen ha insistito molto, nei comizi e nelle interviste che ha concesso prima del ballottaggio, sulle sue origini «rurali» e sulla sua capacità di capire anche i bisogni degli elettori che non vivono nelle città. A tal scopo è tornato a indossare in campagna elettorale anche il «Tracht», il tradizionale costume tirolese, per riuscire così a parare i colpi degli avversari della Fpö, che lo accusavano di essere un intellettuale urbano lontano dalla gente e un esponente dell’establishment. In estate ha messo poi scarpe e giacca da trekking e invitato i giornalisti a seguirlo per un’escursione lungo la valle di Kaunertal, a circa 2.000 metri d’altezza, per dimostrare di poter reggere senza fatica, a 72 anni, gli strapazzi che il mandato di capo dello Stato porta con sé. Non solo, ma l’essere cresciuto in una zona non lontana da Svizzera e Italia ha rafforzato in lui la consapevolezza che non sia possibile tornare ai vecchi confini nazionali. Un tema che torna spesso nei suoi discorsi, al pari della consapevolezza di dover aprire le porte a chi fugge da guerre e persecuzioni.
«Sascha», come lo chiamano gli amici, è un Verde sui generis, che non di rado si è smarcato dalla linea ufficiale del partito che pure ha guidato per 11 anni, dal 1997 al 2008. In campagna elettorale si è spinto ad esempio a parlare di «Heimat», «patria», un concetto tradizionalmente rivendicato dalla Fpö.
Fumatore incallito, amante dell’Alfa Romeo (negli Anni 80 guidava un’Alfasud, «un’auto fantastica», ha rivelato qualche anno fa in un’intervista), ha iniziato la sua carriera nel partito socialdemocratico, per poi aderire alla formazione ecologista. Un passato che ha preferito non mettere troppo in primo piano in campagna elettorale, presentandosi piuttosto come candidato «indipendente», appoggiato da un’ampia coalizione trasversale di sostenitori provenienti dal mondo politico e intellettuale (sebbene i Verdi abbiano finanziato buona parte della sua campagna). Ex professore di economia all’università di Vienna, nelle sue ultime uscite prima del voto ha promesso di voler mettere al centro del suo mandato la lotta all’elevata disoccupazione nel Paese (il 9% a novembre, mese in cui si è registrato per la prima volta in 5 anni un calo dei senza lavoro, seppur di appena lo 0,2%).
Agnostico (ho perso la fede in Dio da ragazzo, ha dichiarato una volta), è sposato in seconde nozze con una dipendente del gruppo parlamentare dei Verdi. La quale non lascerà il suo lavoro dopo l’arrivo di suo marito alla Hofburg (il Quirinale austriaco), in quanto, come dichiara il neopresidente, una simile decisione sarebbe anacronistica nel 21° secolo.
«Sarò un presidente cosmopolita e pro-europeo», ha annunciato ieri il primo capo dello Stato dei Verdi in Europa, noto per il suo stile pacato e i suoi toni misurati, che dovrebbe giurare a fine gennaio e non ha ancora deciso se andrà in Svizzera o in Germania per il suo primo viaggio all’estero. Il neopresidente è comunque contrario a «spostare» il baricentro austriaco in materia di politica europea verso i Paesi euroscettici di «Visegrad» (Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria), come chiedeva il suo sfidante Hofer: abbiamo bisogno di buoni rapporti con tutti gli Stati dell’Unione europea, ha dichiarato nei giorni scorsi, «e soprattutto coi nostri più importanti partner commerciali, la Germania e l’Italia».