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 2016  dicembre 05 Lunedì calendario

L’avvertimento di Trump (non casuale) a Pechino

La telefonata di Donald Trump al leader di Taipei Tasi Ing-Wen non è stata casuale. Eppure molti continuano a liquidare la comunicazione con Taiwan come il risultato di una gaffe dovuta all’inesperienza del neo presidente americano e del suo gruppo. Sbagliano. La decisione è stata presa sapendo benissimo quali sarebbero state le conseguenze. Che piaccia o no, il “nuovo” paradigma Trump non esclude di rimettere in gioco lo status quo internazionale. E proprio ieri ha annunciato che proporrà una “tassa di confine”, una penale del 35% per le aziende americane che trasferiranno posti di lavoro all’estero. Anche questa è una misura che potrebbe colpire la Cina.
Ma è la dinamica seguita con Taiwan a scoprire le carte: l’apparente casualità era una maschera, la telefonata diventa il veicolo per un messaggio che ha scosso l’intero teatro asiatico e di cui si parla nel mondo intero. Lo hanno certamente capito a Pechino: la prima reazione è stata morbida, poi una dura protesta formale che ha minacciato di rimettere in gioco le relazioni fra i due Paesi.
Alcuni mesi fa il capo di Gabinetto di Trump Reince Priebus aveva visitato a Taiwan Tsai Ing-wen. La nuova presidente del partito progressista aveva sconfitto il Kuomitang e la vecchia politica per un «dialogo aperto e costruttivo» con Pechino. La durezza con cui la Cina aveva soppresso l’autonomia di Hong Kong non aveva rassicurato i taiwanesi. Esperti dell’Enterprise Institute, un think tank della destra non vicino a Trump, avevano elaborato progetti per approfittarne e rafforzare le relazioni con Taiwan come arma negoziale nei confronti della Cina. Non solo, John Bolton, ex ambasciatore di Bush all’Onu ed esponente della destra del partito, ha scritto un articolo sul Wall Street Journal proponendo di usare la “carta Taiwan” per rispondere alle aggressive politiche cinesi nei mari cinesi del Sud e in quelli orientali «mettendo anche in gioco l’ambigua politica di una Sola Cina» fino a suggerire la riapertura di «piene relazioni diplomatiche con Taiwan». Bolton era in corsa per il dipartimento di Stato dell’amministrazione Trump, resta in corsa per una posizione alla Casa Bianca.
Questa dinamica esclude l’improvvisazione. La domanda è un’altra, con la sua uscita casuale Trump ha voluto davvero affermare l’avvio di una nuova politica del confronto con Pechino? O solo tastare il terreno? Come risponderà la Cina a questo affronto, certamente inatteso? I diplomatici anticipano che una risposta di Pechino ci sarà per chiarire che da un aumento della tensione non ci guadagnerà nessuno anche sul piano economico. Tanto più che pochi giorni fa la Cina aveva finalmente accettato di votare per sanzioni Onu contro la Corea del Nord e i suoi progetti nucleari. Un “successo” per la diplomazia dell’amministrazione Obama.
Molti repubblicani però erano stati critici. Per loro la lista della poca cooperazione della Cina riguarda non solo la Corea del Nord ma il potenziamento militare, la costruzione di isole artificiali nei mari cinesi del Sud, il confronto con il Giappone. E dopo la telefonata il senatore John Cotton dell’Arkansas ha elogiato Trumpo dicendo che «lo sviluppo riafferma l’impegno americano a favore dell’unica democrazia in Cina». Nessuna ingenuità o casualità dunque. Trump sapeva quel che faceva ma può restare ambiguo anche perché è capacissimo di ribaltare una sua posizione anche di 180°. E forse lo farà anche per la Cina e la “one China policy”, ma per ora è rimasto vago. Abituiamoci a questo tipo di incursioni, tipiche del negoziatore d’affari. Vedremo chi sarà il prossimo.