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 1999  giugno 14 Lunedì calendario

Quale futuro per il Kosovo? Ryszard Kapuscinsky: «A credere alla televisione, alla sua propaganda piuttosto ingenua, i profughi torneranno nelle loro case

• Quale futuro per il Kosovo? Ryszard Kapuscinsky: «A credere alla televisione, alla sua propaganda piuttosto ingenua, i profughi torneranno nelle loro case. Non è vero: per chi emigra non c’è mai ritorno. L’emigrazione ti sradica dalla tua terra, ti disperde nel mondo, ti fa dipendere dagli aiuti internazionali. Ho passato tanti anni in Somalia, Ruanda, Zaire: chi scappava non è più tornato a casa».
• Si dice: gli albanesi, (la loro tribù) non avranno alcuna voglia di convivere con i serbi (la tribù avversa), e presto dovranno separarsi. «Val pena di riflettere su questo: l’impossibità della convivenza è proprio la tesi del nazionalismo serbo. E di tutti i nazionalismi ex yogoslavi: oltre al serbo e al croato anche l’albanese. Nemici ma omologhi, talvolta segretamente alleati, questi nazionalismi continueranno a perseguire un piano semplicissimo: spartirsi il meridione dell’ex Yugoslavia lungo confini etnici. Dividere il Kosovo e far la pelle alla Bosnia. Poi completare la pulizia etnica. Una parte della diplomazia europea coltiva un retropensiero per il quale questa soluzione sarà alla lunga inevitabile. Ma francamente non vediamo la differenza tra il Kosovo senza albanesi sognato da Milosevic e il Kosovo senza serbi gradito all’Uck: sarebbero due mostri identici [...] Per questo l’Europa deve mandare segnali forti. Non solo parole, ammonimenti, pressioni (cacciate i Milosevic e avrete i soldi), promesse d’Europa e sermoni buonisti: fatti. Uno in particolare: obbligare la Croazia a riprendersi 400 mila serbi che espulse dal ’91 al ’95, nel totale disinteresse degli occidentali (e degli americani per la solita incoerenza). Sanare quel trauma. Fare ammenda di quel silenzio. E così convincere i serbi che la Nato ha intenzioni punitive, ma intende applicare lo stesso principio in tutta la ex Yugoslavia. Seconda condizione: neutralizzare l’Uck, mandato allo sbaraglio, pericolosamente illuso dagli americani di rappresentare le truppe di terra della Nato, e adesso poco disposto a deporre le armi e i progetti di secessionismo».
• L’Uck non ha nessuna intenzione di deporre le armi. In vista della resa dell’esercito serbo, l’Uck ha notevolmente rafforzato i suoi ranghi con nuove reclute: 40.000 effettivi (fonti Nato). Faton Zyrapi, comandante dell’Uck nel distretto di Kukes: «Non sopporteremo a lungo il protettorato dell’Europa e degli Usa. Presto diventeremo l’esercito regolare del Kosovo indipendente».
• Riportare nelle loro case gli albanesi scappati in Macedonia è un serio problema logistico. «Nessuno ha ancora stabilito il modo in cui gli 850 mila profughi rientreranno concretamente nel loro paese. Non potranno certo farlo nello stesso modo in cui ne uscirono, quasi sempre a piedi, camminando per giorni e giorni. Escludendo il trasporto aereo perché gli aeroporti della regione sono stati distrutti dalle bombe e per la frammentazione sul territorio dei profughi, sarà necessario utilizzare mezzi di trasporto via terra. Il primo problema sarà allora avere a disposizione un numero sufficiente di camion e autobus; il secondo sarà il tempo che occorrerà per il controesodo. Quando rientreranno nel loro paese, i kosovari non troveranno praticamente nulla. Dunque, le tendopoli che oggi sono state costruite lungo il confine macedone e albanese saranno di fatto trasferite».
• Mine. Prima di andarsene i serbi hanno disseminato di mine il terreno. Gianfranco Mela, titolare di un’azienda che si occupa di bonifiche dagli esplosivi propone di rimandare almeno di qualche mese il ritorno dei profughi: «Credo sia la soluzione più intelligente, il ritorno verso casa potrebbe nascondere pericoli dietro ogni angolo». Lei e la sua azienda siete stati impegnati in Bosnia e Croazia, conoscete alla perfezione le modalità di sistemazione delle mine. Almeno nella zona dei Balcani. «Già, ma fra il conflitto del ’95 e quello appena concluso ci sono moltissime differenze. Una su tutte: in Croazia e Bosnia si tratta di rintracciare le mine e disattivarle. In Kosovo, invece ci sono stati bombardamenti uniti al posizionamento di ordigni». Superficie e profondità, questo intende? «Si, perché se una bomba cade da 6000 metri può arrivare anche a 6 metri di profondità nel caso non esploda. Tutto dipende dal tipo di terreno su cui arriva». [...] Alcune stime danno per certo che il 15 per cento delle bombe lanciate dagli aerei non esplode. Sono dati credibili? «Penso proprio di sì. Ed è proprio per questo che in Kosovo si avranno delle enormi difficoltà a far ritornare tutto normale [...] Eppoi, ci sarà qualcuno con il coraggio di andare a seminare i campi con il timore di poter perdere un arto per colpa di una mina? No, i profughi per adesso è meglio che restino dove sono».
• Kosovo, Montenegro e Albania saranno il nuovo mezzogiorno dell’Italia. «No, non è il momento di voltare pagina. E se proprio non riusciamo a essere all’altezza delle nostre proclamazioni morali, cerchiamo almeno di non tradire i nostri interessi. Che sono molto chiari, o riusciremo a europeizzare i Balcani o ne saremo balcanizzati. Dopo tante insensatezze, tanti orrori, osiamo sperare che la guerra sia riuscita a risvegliare nella nostra Europa quel sano istinto di conservazione che ci dovrebbe spingere a impegnare ogni risorsa a disposizione per ricostruire i Balcani. Un’impresa quasi impossibile ma senza alternative. Il vulcano della guerra ha eruttato dalle viscere di quella terra malata il peggio del suo peggio. Davanti alle nostre coste è affiorato un Mezzogiorno esterno molto più povero e disperato del nostro. Questo nuovo sud penderà inevitabilmente verso di noi».
• L’Albania è una faccenda complicata. «Una volta spenta la guerra in Kosovo, è forse inevitabile per l’Italia in particolare curarsi dell’Albania, ”una faccenda complicata” secondo lo scrittore Ismail Kadaré. Dunque attento a misurare il fardello, ai costi economici e ai rischi politici che includono gli azzardi dell’Uck e i poteri delle mafie skipetare, mentre già quattro regioni d’Italia con le loro mafie e camorre sembrano a stento governabili».
• L’Italia resta in prima linea. «Europa o non Europa , L’Italia resterà comunque in prima linea. Dovremo fronteggiare le conseguenze dell’ennesimo conflitto balcanico, ci piaccia o meno. Chi pensa di poter nascondere la testa nella sabbia, italicamente aspettando che trascorra la nottata, avrà presto un risveglio molto brusco».
• La corsa per arrivare nel Kosovo. «Fatte le dovute proporzioni, la ”corsa” a chi arriva per primo a insediarsi sul territorio teatro del conflitto ricorda quella che gli alleati occidentali e l’Armata Rossa fecero sul finire della seconda guerra mondiale. Allora, la mappa dell’Europa del dopoguerra fu disegnata dall’avanzata degli eserciti vittoriosi, che in tal modo crearono le premesse della successiva ”guerra fredda”. Oggi la corsa è certamente destinata ad avere conseguenze meno radicali, dal punto di vista strategico ma, probabilmente, rilevanti da quello politico».
• La comunità internazionale è chiara: con Milosevic, niente aiuti alla Serbia. Franc Perko, vescovo metropolita cattolico di Belgrado: «Non credo sia una minaccia seria. Milosevic ha almeno un merito: di averla fatta finita con questa guerra. Immagino si aspetti un premio. Se lo avrà, certo è un altro discorso». Milosevic le pare più debole, adesso? «Non sono d’accordo con chi dice che Milosevic ha i giorni contati. un tattico abilissimo. Forse le elezioni, ma elezioni libere, con liberi media possono far tramontare la sua epoca. Ma non prima di quest’inverno. E il suo partito Sps, unito con quello di sua moglie, lo Jul, resterà sempre una forza primaria». La miseria che incombe sulla popolazione non lo indebolisce? «Non necessariamente. La propaganda può cambiare ogni cosa, qui: dirà che se i serbi stanno sempre peggio, è colpa dell’occidente, dell’embargo, non di Milosevic. La miseria può rafforzare il regime. già accaduto».