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 2016  ottobre 27 Giovedì calendario

Il popolo di Trump

Dalle pianure del Midwest piegate dalla crisi del 2008, e da quella ventennale del settore manifatturiero, al Sud spaventato dall’immigrazione, dall’Est del New Hampshire all’ovest della California. La maggioranza silenziosa che sta soffiando sulla corsa di Donald Trump verso la Casa Bianca è ovunque nel Paese, più forte negli Stati rossi dei repubblicani, ma presente anche in quelli blu dei democratici, trasversale nella presenza geografica, monolitica in quella etnica, omogenea nella sua volontà di ribellione al sistema, all’establishment del partito, e del Paese. 

È questa la grande novità elettorale delle Presidenziali 2016, è questo il lascito di 18 mesi di campagna elettorale, tra primarie e corsa alla Casa Bianca, l’aver costretto il Grand Old Party (Gop, il vecchio nome dei Partito repubblicano) a guardare l’anima della sua base forse più populista che conservatrice, avergli imposto di ascoltare le paure e i bisogni dei suoi elettori. Una storia d’amore e di ribellione quella tra Trump e il suo popolo, di riscatto e di risveglio con il leitmotiv della voglia viscerale di un cambiamento anti-sistema. La «Trump Nation» è quella di tute blu e classe media, militari e pensionati, soprattutto bianchi. A loro Trump parla di posti di lavoro da riportare in America, offre il capro espiatorio degli immigrati irregolari, regala il sogno di una America «di nuovo grande» sul palcoscenico internazionale. Si promette difensore dei valori conservatori, dall’aborto alle armi. A loro scandisce le colpe dell’establishment, chiama all’ammutinamento e alla ribellione. «I sostenitori di Trump si vedono come persone che hanno lavorato duro per arrivare in cima alla scala sociale e ora si trovano a metà e lì sono bloccate tra chi è arrivato alla stratosfera e chi li ha scavalcati aiutati dall’establishment – spiega Noam Chomsky, professore emerito del Mit di Boston -. Tale ingiustizia, questo senso di slealtà è quello che li porta a odiare l’establishment».

Un ritratto che vale sempre – anche ad Aspen, Colorado – tra i ricchi d’America. Robert Jenkins è presidente del Partito repubblicano di Pitkin, la contea dove si trova la «Cortina» degli Usa, e per Trump ha raccolto mezzo milione di dollari. La fotografia che scatta però non parla di élite, ma di classe media: «Gli elettori di Trump sono grandi lavoratori, americani della classe media, che credono che questo sistema monopolizzato dai liberal sia a favore dell’1% e temono che i loro figli non avranno le stesse opportunità che loro hanno avuto. I 240 anni di storia americana si fondano invece proprio su questo, sul dare alla generazione successiva una chance migliore. Questo è il pensiero principale dei supporter di Trump». 

A un paio di ore di auto da Aspen c’è Vail, dove è di stanza la Decima Mountain Division, ovvero gli alpini americani, quelli che hanno combattuto sulla Linea Gotica nel 1944 e che oggi partecipano alle principali missioni, Afghanistan in primis. «Di Hillary non c’è da fidarsi, almeno Trump ha mostrato interesse nei nostri confronti», spiega uno di loro. Farsi riprendere non è permesso dal regolamento, ma lui dice chiaramente: «Il nostro sacrificio per questo Paese è totale, vogliamo che l’America torni ad essere grande».

Rifare Grande l’America quindi, come recita lo slogan preso in prestito da Ronald Reagan, uno slogan e un impegno che sembrano avere il potere di far dimenticare gli scandali. Nonostante video e denunce di molestie, le donne non hanno abbandonato del tutto Trump. Quelle sposate e residenti nei sobborghi d’America – secondo i sondaggi – resistono al suo fianco, come conferma Georgette Mosbacher, Commissioner e repubblicana di ferro che conosce Donald da 30 anni. 

«Quelle frasi zozze da ragazzini non sono cose che mi disturbano più di tanto. Ciò che invece mi disturba sono le famiglie dei veterani che non riescono ad avere nemmeno i buoni pasto per dare da mangiare ai propri figli. – racconta -. Io sono sconvolta quando un giudice di sinistra condanna solamente a due anni un uomo che ha molestato un bambino, ecco questo mi disturba». 

Nella galassia Trump gravitano e trovano la luce dei riflettori anche realtà e personaggi che, prima di lui, non erano considerati interlocutori. Come David Duke, ex leader del Ku Klux Klan: «Trump – dice – scardina i normali meccanismi delle lobby, delle banche, dell’establishment di Washington. Scardina il sistema che è responsabile della nostra crisi». Duke è docente universitario e si considera un conservatore nazionale, oltre che un attivista per i diritti umani. Ma tra i suoi ex colleghi suprematisti bianchi sono molti a sostenere il candidato repubblicano, che da parte sua – dopo varie pressioni – ha condannato l’endorsement dei più appariscenti, ma fatto poco o niente per allontanarne la base. Una situazione che in molti temono possa sfuggire di mano, magari il giorno del voto con quella disobbedienza professata dal tycoon nel non riconoscere la vittoria di Hillary Clinton. «Donald Trump è un tipo di uomo che non abbiamo mai visto in politica prima, questa è una rivoluzione politica, più che un’elezione – sferza Carl Pasquale Paladino, presidente della Campagna Trump per New York -. La classe media, la maggioranza silenziosa è profondamente irritata con il governo, e Trump parla la loro lingua, dice le cose che loro pensano».

Una maggioranza, una galassia, una nazione, un popolo che al suo campione ha consegnato la nomination del Gop contro tutto e contro tutti. «Trump è riuscito a galvanizzare quel movimento di base che abbiamo visto formarsi negli ultimi anni con i Tea Party, – dice Aldo Civico, antropologo e consulente della campagna Obama -. Un movimento che ha voglia di distruggere, di rompere». Un movimento che crede in lui e che lo sostiene contro i leader del partito stesso: l’establishment da una parte la base dall’altra, il popolo al suo fianco sempre e comunque. Per questo Trump un obiettivo lo ha raggiunto ancor prima dell’8 novembre, ha rottamato il partito repubblicano scardinandolo dal suo interno. Chi o cosa prenderà il suo testimone scriverà la storia degli Stati Uniti tanto quanto un Presidente. 
Liliana Faccioli Pintozzi e Francesco Semprini


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La sua rivoluzione 
contro l’establishment 
è appena cominciata
Ho cercato l’America di Donald Trump all’autodromo Nascar di Martinsville, in Virginia, il vecchio Sud. Chiudono le poche miniere che restavano e Martin Dodson, meccanico disoccupato di Buchanan County curvo su una mostruosa Toyota da competizione, «700 cavalli, 16 valvole», è arrabbiato: «Viaggio con le gare, cercando lavoro. Voto Trump. Qui comandano le banche internazionali, Hillary chiuderà Nascar e ci leverà le armi, odia i machi». Son risalito a Nord, verso la contea Ulster, New York, dove capita che un orso nero attraversi l’autostrada, e per questo l’informatico Joseph Gallagher, a Andes, tiene un armadio di armi in casa, «Ho un fucile italiano Carcano-Mannlicher, come quello che usò Oswald per sparare a Kennedy». Al bar, già con le luci di Natale e il barista col cappelluccio di Trump «MAKE AMERICA GREAT AGAIN», Joe ordina solo birra locale, «Freak Tractor»: «Noi paghiamo per la difesa degli europei, che vanno in pensione a 50 anni. Messicani e robot rubano lavoro. Ho il rosario appeso allo specchietto retrovisore e mi prendono in giro, l’America è senza Dio. Trump perderà, ma non ci fermiamo, credimi». 

Tra gli uomini come Joe e Martin, orfani della classe operaia che nel 1945 creava il 50% della ricchezza mondiale, Trump trionferà, perché non credono – come sostiene il best seller di Hillary – che per educare un figlio «Serva un villaggio», pensano bastino papà, mamma, nonni. A Boston, davanti a un piatto di gamberi di Legal Seafood ascolto un capitano della polizia B. R.: «Io e i miei fratelli, uno nell’esercito, l’altro tra i commandos Berretti verdi, voteremo Trump. Hillary difende i neri che sparano ai poliziotti, Trump sarà anche pazzo, ma rispetta chi porta la nostra divisa».

Il partito repubblicano ha sottovalutato il fiuto politico di Trump, volgare Trimalcione ma finissimo leader quando urla «L’antidoto a decenni di malgoverno di un pugno di snob è la volontà popolare. Il Paese ha tanti guai, ma la gente ha ragione e le élite torto». 

Con elisir populista Trump ubriaca gli elettori. Il futuro è opaco, l’economia stagna in Europa e in America non impingua i salari, Isis incalza, Putin fa il bullo, la Cina spadroneggia sul debito Usa, l’anidride carbonica fa record di inquinamento? Nel Virile Pianeta Trump la soluzione è uno scatto d’ira, al diavolo Nobel, rapporti Power Point e Big Data. La classe globale ha i suoi bollettini di condominio, «Economist», «Financial Times», Cnn, affolla i meeting Aspen e Davos, ma Joe e Martin si informano sui siti Tea Party, rinchiusi dall’algoritmo di Google tra siti chi la pensa come loro.

Dopo avere cercato per un anno il segreto di Trump nell’America arrabbiata, lo trovo però a sorpresa dall’avvocato K., legale milionario di uno studio che domina con le sue vetrate Times Square, a New York. A passeggio su Park Avenue, codice postale dei miliardari 10021, questo campione della classe che Trump vuol sconfiggere spiega sottovoce «Anche io voterò Trump. Dopo la vittoria di Clinton, magari Donald farà i soldi con uno show tv, ma il trumpismo è appena cominciato. Perché non è una rivolta economica, è una rivoluzione, una restaurazione se preferisci, culturale. Lo studioso Justin Gest ha chiesto ai nostri elettori se voterebbero la piattaforma dei nazionalisti inglesi, «No all’emigrazione, lavoro Made in Usa per cittadini Usa, difesa dei valori cristiani, stop all’Islam», il 65% ha detto Sì. L’avvocato K. cita a voce alta uno studio dei professori Inglehart e Norris: «Dal 1980 non si vota più per appartenenza a una classe sociale, ma per identità culturale. Quanto guadagni non dice come voti – ecco il segreto di Trump -, ma come la pensi su nozze gay, clima, neri, emigrazione sì. Miliardari e poveri insieme, presidiano le due opposte barricate».

Guardo l’elegante abito italiano dell’avvocato K.: la classe globale si appresta a governare con i sanculotti? «In America ci sono 3 milioni tra autisti di auto e bus e camionisti, è il mestiere più diffuso tra i maschi. Ieri Uber e Budweiser hanno completato la prima consegna di un carico di birra, in Colorado, un Tir robot, senza guida umana. Tu se fossi camionista con tre figli come ti sentiresti? Hai terrore per il mutuo e in tv ascolti una professoressa spiegare che il tuo mondo, maschio, testosterone, armi, chiesa, automobili, fa schifo e opprime l’umanità. Secondo Foreign Affairs, gli aderenti ai Tea Party, oggi con Trump, confermano che la loro motivazione politica non è economica, ma culturale, religiosa, etnica e razziale. Io voterò Trump, perché i soldi mi dividono dal tuo amico meccanico, ma su Dio, Patria, Famiglia la pensiamo allo stesso modo. Brexit nuocerà alla finanza inglese, gli elettori lo sapevano bene, ma hanno votato preferendo bandiera e tradizione al portafogli. Trump passerà, la rivoluzione che lo ha creato è appena cominciata e io voglio starci dentro fino all’ultimo».


Gianni Riotta