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 2016  ottobre 27 Giovedì calendario

Le porte chiuse del web

Francesco ha trent’anni, vive in Friuli, è laureato in Giurisprudenza, è autore di poesie “da cui affiorano ricordi d’infanzia”. Ieri, sul suo profilo Twitter, ha scritto: “Dieci, cento, mille Gorino!”. “Gli abitanti di Goro e Gorino non sono razzisti. Sono persone di buon cuore, gentili e lavoratori”: Flavia lo scrive su Facebook.
La frase è netta, ma non urlata. Gianfranco vive a Bologna, ama i cani e gli animali in generale; se la prende con chi minimizza quella che lui chiama “invasione”: “Vedessi come è ridotto il centro di Ferrara, un mucchio di pusher anche durante il giorno e rari sono quelli di pelle bianca”. Carlo ha la bandiera italiana nella foto del profilo: “Grande onore a chi ha avuto il coraggio che dovrebbero avere tutti gli italiani”.
Pensare ai social network come a uno sfogatoio collettivo, dove le frasi non vengono pesate, non aiuta a capire. Ho passato qualche ora inseguendo hashtag come # stopinvasione, ho trovato migliaia di commenti in cui – con toni pacati, con frasi precise e articolate – quei cittadini di Gorino che hanno “resistito” contro i migranti vengono chiamati – letteralmente – eroi. Non c’è solo chi, come Martina, ligure, sbraita contro “questi profughi che sbarcano con lo smartphone” (tema ricorrente: “hanno telefoni che gran parte di noi italiani se li sogna di notte” dice Gladys), o chi, come l’estensore dei post di Casa Pound, invita gli italiani a “combattere l’invasione”. C’è anche chi – con modi urbani, senza eccessi di aggressività – spiega che i migranti sono “giovanotti che scappano per non lottare per la libertà nei loro paesi, come fece mio padre nel nostro”. Luciano li chiama fuggiaschi: “Scappano abbandonando le rispettive famiglie”. Marco è convinto che la maggioranza degli italiani stia con i cittadini di Gorino: d’altra parte “i clandestini stanno cambiando il nostro Paese, hanno solo pretese, non hanno rispetto e vogliono imporci il loro modo di fare”.
“Siamo il popolo più sottomesso e calpestato del mondo”: è intorno a una volontà di riscatto, a una rivendicazione di orgoglio che ruotano moltissimi interventi in Rete. Un orgoglio – questo colpisce – “italiano”: da Nord a Sud un filo teso, una risposta comune, un’alleanza per reagire all’emergenza, a chi “raccatta clandestini dinanzi le coste africane per vomitarli nelle nostre città e nei nostri quartieri”. Il malessere sociale di cui parlava ieri Ezio Mauro rilancia un sentimento di appartenenza – nervoso, incongruo, fragilissimo: e non si manifesta necessariamente con gli accenti più brutali, non è il coro sgolato degli ultrà. Si traduce in un ragionamento condiviso, non nello strappo consapevole all’etichetta, al politicamente corretto.
Quando Roberto, dal Polesine, invita tutti a rendere onore agli abitanti di Gorino, “gente con i calli alle mani e la pelle bruciata dal sole e dal freddo”, non si sente razzista – e lo scrive. Non sono razzista. Quando Massimo esclama “meno male che gli italiani iniziano a svegliarsi”, dice “anche io sto coi cittadini di Gorino” non si sta lasciando andare allo sfogo di un minuto, individua una “parte giusta” da sostenere. Un orizzonte comune, un’alleanza possibile: “Mille per mille insieme per i cittadini di Goro! I clandestini hanno rotto, basta invasione!” scrive una ragazza che vive a Bologna.
Possiamo cavarcela facilmente con un’alzata di spalle, o con il disprezzo che nasce dal sentirsi migliori – noi Buoni contro i Cattivi. Ma sarebbe, in una forma diversa, lo schema da cui muove uno slogan insensato come “Prima gli italiani”. Se Gianfranco, nell’Italia del 2016, pronuncia con disinvoltura una frase come “rari sono quelli di pelle bianca”, io sono tenuto a chiedermi perché. A domandarmi come sia franato in lui, o non sia mai sorto un tabù anche solo linguistico. È l’aspetto più esteriore, sì. Ma se il linguaggio risulta così inquinato, non può non esserlo il pensiero.
E allora accade che un insegnante possa entrare in classe, a Milano, e spiegare ai suoi ragazzi che devono ribellarsi a “questo nuovo conformismo obbligatorio”. Lo spiega con le parole dell’uomo colto, con la sintassi corretta: “O ci uniamo tutti a disubbidire o tra non molto non potremo neanche dissentire”. Si riferisce a chi ci “lava il cervello, ci indottrina” su Lampedusa. Esorta gli alunni a non vedere un film come Fuocoammare, a non farsi contaminare da “un misero dormentario di propaganda, una schifezza pietistica”. I “mi piace”, a poche ore dalla pubblicazione, erano già settemila. “Mi dispiace sentire che più di qualche profugo si salva. Questa invasione è la peste del terzo millennio. Un altro salvataggio: potevate lasciarli morire” scrive una collega del professore di Milano. Non è il difetto di pietà o di semplice immaginazione ciò che impressiona. È che senta le proprie parole come legittime, come parole “da condividere”.