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 2016  ottobre 27 Giovedì calendario

Chi è la custode dei «fili di Dio». La pasta che nessuno sa imitare

NUORO Filindeu, in sardo della Barbagia. Traduzione: fili di Dio. Sottilissimi e in controluce addirittura trasparenti i fili che Paola forma con le dita di una mano e con l’altra allunga con un movimento dolce, armonico e poi all’improvviso bruscamente rapido. Un piccolo cilindro d’impasto: semola di grano duro, acqua e salamoia. È la pasta più rara al mondo. Sono neanche dieci le donne a saperla fare, quattro di Nuoro, stessa famiglia, da più di 200 anni di madre in figlie e nuore. A chiederla vengono dal Giappone, dall’Arabia e dalle Americhe. Paola rivela candidamente la ricetta: «Semola di grano duro, acqua, salamoia e... olio di gomito». Solleva lo sguardo concentrato sull’impasto e cadenza: «Il segreto è l’olio di gomito: lavorare l’impasto, modellarlo, stirarlo e lavorarlo ancora».
Nessun laboratorio, il filindeu è fatto soltanto in casa, sul tavolo di cucina. Paola Abraini, 62 anni, lavora e parla: «Avevo 16 anni ed ero fidanzata fresca di Antonio – il marito è lì che conferma con un cenno —, mia suocera Rosaria mi voleva bene: “Guarda come si fa”. Ho imparato subito e non ho mai smesso».
Su (il) filindeu si preparava due volte l’anno per la festa grande di Nuoro, San Francesco di Lula. A ottobre, ma soprattutto a maggio per la novena e il pellegrinaggio, legato a riti e leggende. Prima fra tutte quella sul santuario, fatto costruire nell’Ottocento a 34 chilometri da Nuoro per «grazia ricevuta» da un bandito assolto in tribunale da un delitto. Da allora migliaia di persone percorrono a piedi la strada da Nuoro al santuario e la festa va avanti per nove giorni, fra preghiere, balli tradizionali e fiumi di vino rosso. Si comprano e vendono greggi e cavalli, si combinano matrimoni, si mostra l’abilità nel gioco della morra e atti processuali hanno rivelato che qualche rapimento è stato là organizzato e di qualche altro si è pagato il riscatto. E si raccontano storie come quella di una nuora, che appena dopo il matrimonio rifiutò di preparare il filindeu con la suocera. Al ritorno dalla festa di San Francesco cadde da cavallo e precipitò in un dirupo che da allora si chiama – così è anche oggi – «il precipizio della sposa».
Al santuario il priore (l’uomo designato a raccogliere i fondi per la festa) offriva ai pellegrini il filindeu nel brodo di pecora. «Non accettarlo – sottolinea Paola – era una grave offesa. Ricordo che un anno con mia suocera ne abbiamo fatto quattro quintali; ha lavorato per mesi tutta la famiglia». Il piccolo cilindro d’impasto è pronto: Paola lo stende e forma due lembi, lo ritrae e ne forma quattro e così di seguito: otto, sedici (ogni tanto lo ammorbidisce con acqua e salamoia prese da due ciotole di terracotta) trentadue, sempre più sottili, fino a 256 fili. «Non so quante altre – non nasconde l’orgoglio – ci riescono». Fatto e adagiato su una base circolare di legno larga un metro, tre strati sovrapposti, fino a formare una rete. Paola è soddisfatta: «Finito, ora va messo al sole a essiccare». Poi verrà frammentato, si conserva anche per anni purché in luogo asciutto.
Quanto costa? Più di 15 euro al chilo. Tanto? «Un chilo basta per 30 persone e in un giorno se ne possono fare non più di due chili». Cuoce in un minuto e sopra il brodo, tassativamente, scaglie di pecorino primo sale. Produrlo su scala industriale, fare contraffazioni? «Un giorno è venuto un ingegnere della Barilla con un giapponese; hanno osservato, volevano costruire una macchina e produrlo. Sono andati via sconsolati: impossibile».
Grandi chef da ogni parte del mondo, tra cui Jamie Oliver («ma non ha imparato»), la ribalta in tv, la Bbc. «Un signore del Texas ha portato un’enorme teca e ci ha chiuso la base circolare col filindeu: è un’opera d’arte, starà accanto ai miei quadri». E una signora da Napoli ha telefonato: «Ci ho fatto la pastiera... Squisita». La tradizione di piatto povero dice brodo di pecora, la fantasia della nuova cucina propone estrose varianti: pasta al forno, melanzane alla parmigiana, straccetti ai funghi, consommé di crostacei. Paola consente: «Purché sia filindeu...».