La Stampa, 26 ottobre 2016
Adesso l’abito usato diventa di lusso ed è vintage mania
«Bello, è nuovo?» «No, è di mia nonna». È vintage. Se Marie Kondo, guru giapponese con l’etica /estetica dell’ordine e del buttar via il superfluo (tutto quello che non serve qui e ora) avesse mandato il suo messaggio una generazione fa, non ci sarebbero tanti tesori dentro i nostri armadi: Vuitton Speedy pre-1989, sautoir Chanel, borsette di lacca Anni 70, le prime Baguette e Croissant di Fendi, il cappottino con le spalle strette e il taglio a trapezio che ricorda subito Jackie Kennedy. Mai come oggi, nel tempo del new e now, del presente che guarda al futuro, il passato ha avuto tanto valore, anche in denaro. Non a caso, Vestiaire Collective, piattaforma online nata nel 2009 per vendere e acquistare in sicurezza il lusso di seconda mano (oltre 400 mila pezzi) è approdata in Italia in cerca guardaroba da svuotare. Questi geniali francesi, organizzati per valutare e garantire l’autenticità di ogni singolo oggetto (2500 controlli al giorno nel quartier generale di Parigi) sanno che le nostre mamme erano conservatrici, in senso positivo, appena sfiorate dalle mode del momento, vaccinate dal buonsenso contro gli innamoramenti fulminei per un tacco, un orlo, una scollatura. Compravano cose fatte per durare e in molti casi avevano ragione. Una bag Chanel da tre milioni (in lire) oggi vale duemila euro o anche di più. Il fondo di investimento in borsette immaginato dalla bulimica modaiola di «I love shopping», alla fine non era un’idea tanto malvagia.
Se negli Anni 70-80 il cappotto retrò doveva essere rimodernato e fatto passare per nuovo, oggi è il contrario (arriviamo al paradosso del finto vintage). Il vecchio avanza, dopo essere avanzato. L’abito di seconda mano non fa povero, fa status. C’è l’orgoglio per l’affare (cento euro un autentico Pucci da Humana Vintage!) e c’è il bisogno feroce di avere una storia, o almeno di raccontarla. I bijoux Chanel di Anna Piaggi, signora della moda che ci ha lasciati nel 2012, in vendita su LaDoubleJ, ci parlano di sfilate e guerre tra stilisti, di un mondo che è meno frivolo di quanto si pensi. Il Balmain bianco vagamente meringa che Penelope Cruz, nonostante potesse scegliere qualsiasi abito di qualsiasi stilista, ha preferito prendere in un negozio second hand per salire sul palco degli Oscar, aveva il fascino della passata Hollywood. Chi ha comprato a prezzo stracciato le scarpe 38/39 di Bianca Balti («mi si stanno accorciando i piedi») messe in vendita per beneficenza lo scorso aprile, ancora se ne vanta. Ovviamente la vintage-mania è come una tempesta perfetta, è necessario un certo clima. Intanto la moda, a furia di proporre gli Anni 70 e 60, e poi i ’50 e i ’20 per tornare agli ’80 e ’90, in una faticosa corsa da criceti, ha stimolato l’astuta ricerca di pezzi «autentici» e meno cari (le firme sono diventate inarrivabili). Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci ci ha insegnato che lo styling è tutto, basta saper mixare (non che sia facile, guardatevi attorno). In più, sono emersi i primi segnali di insofferenza per la massificazione del low cost. Dalla strada, dai ragazzi, più ricchi di idee che di soldi, è partita una caccia al vintage che mette d’accordo vanità e portafoglio: essere originali e spendere meno. Se le mamme e le nonne collaborano, ancora meglio. Questa sì che è alleanza generazionale.