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 2016  ottobre 26 Mercoledì calendario

E Buttafuoco disse a Pif: «Gli americani erano i nemici»

«Per contrastare lo sbarco degli americani l’Italia ricorre ai mezzi più avanzati: i ciechi». Il film comincia con la voce di Pierfrancesco Diliberto: Pif. Che ora se lo rivede in una saletta – «non mi sono inventato nulla, a Palermo mettevano davvero i ciechi sul Monte Pellegrino perché sentivano prima gli aerei e le bombe» —, seduto accanto a un altro siciliano che lo contesta fin dall’inizio: «Non è stato uno sbarco. È stata un’invasione».
Il film è una fiaba, ma seria. Titolo: In guerra per amore. Arturo vive a Brooklyn con la fidanzata Flora, ma per sposarla e sottrarla alle pretese di un boss deve chiedere il permesso al padre, rimasto in Sicilia. Così si unisce alla spedizione degli americani. Accolti come liberatori.
Buttafuoco ha raccontato un’altra storia. Nel suo romanzo Le uova del drago lo sbarco è visto dalla parte dei fascisti e dei tedeschi. «Per me – dice – è una ferita straziante. Due miei familiari furono condannati a morte dal comando alleato per aver militato nei Far, Fasci d’azione rivoluzionaria, che difesero l’isola. Altri parenti erano emigrati in America. Ogni volta che si rivedevano, si scambiavano accuse: “Voi ci avete bombardati!”. “Voi ci avete sparato contro!”».
«La verità è che lo sbarco in Sicilia è stato rimosso perché imbarazzava tutti e non serviva a nessuno – sostiene Pif —. Noi italiani ci siamo dimenticati di aver fatto la guerra accanto a Hitler. Come dice il fascista che nel mio film parla alla statua del Duce: “Da chi ci devono liberare? Da noi stessi?”. E gli americani fingono di dimenticare che per vincere hanno chiesto aiuto alla mafia, liberato Lucky Luciano, affidato l’isola ai boss. Non a caso Patton nelle sue memorie quasi non ne parla: un attimo prima è in Africa, un attimo dopo lo si ritrova a Napoli».
I due spettatori hanno anche momenti di complicità, come quando si additano i posti («quella è Erice, vero?». «Sì, è queste sono le saline di Trapani»). Ma la loro visione è inconciliabile. «Nel tuo film gli americani sono i buoni – obietta Buttafuoco —. Non c’è il massacro di Acate: 76 siciliani inermi messi in fila e ammazzati, con l’unico scopo di terrorizzare i civili. Non c’è lo scempio del museo archeologico di Catania, con i reperti gettati in via Etnea e il direttore costretto a spazzarli. La Sicilia fu l’unica terra sottoposta al Comando di occupazione; dalla Calabria in su si chiamava Comando di liberazione. I siciliani furono trattati come nemici. E tali erano».
«Ma la scena in cui il capomafia fa entrare gli americani nel suo paese senza sparare un colpo non è inventata – ribatte Pif —. Nello sguardo smarrito dei soldati italiani che vedono “i fimmini”, le donne baciare i nemici c’è l’umiliazione del vinto. E la democrazia instaurata dai vincitori sulla nostra isola non è vera democrazia: è il dominio della mafia, che prima vagheggia la secessione, poi sceglie la Dc. Anche la scena dei mafiosi che traslocano con le seggiole e tutto dalla sede dei separatisti a quella dei democristiani è autentica, me l’ha raccontata Alfio Caruso».
Il film ha storie di tenerezza, come il rapporto tra il cieco e il suo compagno zoppo: «Già ci considerano due scarti, non diventiamo anche arrusi; non ce lo possiamo permettere». Ma la guerra, secondo Buttafuoco, è troppo edulcorata: «La battaglia per la Sicilia fu ferocissima. E i nostri combatterono. A Gela caddero 3.289 italiani». «Non lo nego – risponde Pif —. E il film mostra anche le ingiustizie dei liberatori, che mandano in campo di prigionia uomini vestiti a lutto confusi per fascisti. Ma a me interessava di più mostrare come il mostro mafioso viene liberato dal carcere in cui era rinchiuso». «Gli americani mandarono in fumo il lavoro del prefetto Mori – interviene Buttafuoco —. Sciascia diceva che in Sicilia gli antifascisti erano i mafiosi». «Il fascismo è indifendibile, e c’erano siciliani pure nella Resistenza – ricorda Pif —. Come Pompeo Colajanni, Barbato, che liberò Torino». Riprende Buttafuoco: «Sciascia considerò la relazione di minoranza della Commissione antimafia, scritta dal missino Beppe Niccolai, come il testo fondamentale per capire la cancrena nata tra il 1943 e il 1947. Sempre Sciascia intervistò don Calogero Vizzini, e dovendo dedicargli una copia dell’ultimo romanzo, Gli zii di Sicilia, scrisse: “Allo zio di Sicilia un libro contro tutti gli zii”».
Alla fine compaiono le figure che domineranno la scena nel dopoguerra: Vito Genovese, Michele Sindona, Vito Ciancimino. «Io a Palermo sono cresciuto di fronte alla casa di Ciancimino – racconta Pif —. E sono convinto che il muro mafioso sia crollato insieme con il Muro di Berlino. Negli anni Ottanta, quando noi guardavamo le tette di Tinì Cansino a Drive In, gli americani ragionavano ancora con la mentalità della Guerra fredda: pure i mafiosi, come i nazisti, potevano tornare utili nella lotta al comunismo».
Anche i cimiteri americani che si vedono nel film, però, sono autentici. Americano è l’eroe, ucciso dopo aver denunciato a Roosevelt i favori fatti alla mafia. «Anche questa è un storia vera – dice Pif —. Un ufficiale, il capitano Scotten, scrisse al comando supremo per avvertire che i boss diventavano sindaci, che rischiavano di comandare per molto tempo. Non fu ascoltato».
In guerra per amore è alle battute finali. Don Calogero tiene un comizio trionfante. La statua del Duce vola dal balcone e resta impigliata a testa in giù, per il dolore di Buttafuoco. E il soldato Arturo attende invano sotto la Casa Bianca di poter consegnare al presidente la lettera dell’ufficiale americano. Pif, lei ha un pubblico giovane che dello sbarco in Sicilia non sa nulla; perché ha sentito la necessità di inoltrarsi in questo ginepraio? Stavolta risponde Buttafuoco per lui: «Perché è siciliano».