Corriere della Sera, 25 ottobre 2016
«Salvate Jia, ha ucciso per amore». Il popolo condanna la pena capitale
PECHINO La notifica della condanna a morte è arrivata martedì scorso. Secondo la legge cinese le sentenze capitali vanno eseguite entro sette giorni. Quindi questa mattina Jia Jinglong, trentenne dello Hebei, reo confesso di omicidio, dovrebbe essere giustiziato con un colpo di pistola alla nuca. Ma questo caso, in un Paese dove l’anno scorso sono stati uccisi un migliaio di condannati, ha inaspettatamente aperto un dibattito sulla pena di morte, che pure è sostenuta dalla maggioranza della popolazione.
Jia Jinglong ha ammazzato il capo del suo villaggio. E lo ha fatto in modo feroce e premeditato: ha comperato tre pistole sparachiodi di quelle che si usano in cantiere, le ha modificate e le ha usate per finire la vittima. È stata una vendetta perché il funzionario, corrotto secondo voci riportate dalla stampa, aveva fatto demolire la casa della famiglia Jia proprio mentre il giovane la stava ristrutturando per sposarsi: era il 2013, mancavano 20 giorni alle nozze. La demolizione entrava nei piani di nuovo sviluppo urbano: una cosa comune in Cina, compare la scritta a caratteri rossi «CHAI QIAN» sul muro della vecchia palazzina e poi arrivano le ruspe. Di solito i proprietari sfrattati si mettono d’accordo per un risarcimento.
Jia invece doveva sposarsi e voleva la sua casa. Non erano servite le proteste, nemmeno quella spettacolare del giovane che si era arrampicato su un palo della luce con una bandiera rossa. Durante il processo l’avvocato difensore ha raccontato che Jia Jinglong era stato picchiato a sangue da un gruppo di sconosciuti durante la sua resistenza alla distruzione, ha fatto testimoniare la sorella che ha ricordato come lui avesse lavorato ogni giorno per mesi per rimettere a nuovo la casa in attesa delle nozze: «Lo faceva pieno d’amore». A seguito dell’abbattimento della casa il fidanzamento era andato a rotoli. Jia Jinglong aveva presentato una serie di esposti alle autorità sostenendo di essere stato vittima di soprusi, minacce, pestaggi. L’unico risultato era stato un lungo interrogatorio notturno da parte della polizia: un’altra intimidazione.
Nel febbraio 2015 la vendetta: riempito di chiodi il capovillaggio, Jia Jinglong ha confessato. Ci sono stati due gradi di giudizio conclusi con la sentenza di morte; la Corte suprema ha riesaminato i fatti e l’ha confermata. Ma da martedì si sono mobilitati decine di avvocati, esperti di diritto e migliaia di persone sul web per chiedere clemenza a causa delle motivazioni del delitto. L’avvocato ha spiegato che il suo assistito «aveva condotto sempre una vita pacifica», sconvolta dalla distruzione della casa, e ha invocato le circostanze attenuanti del torto grave. Jia meriterebbe una commutazione di pena in ergastolo, dicono alcuni giuristi.
A settembre il governo di Pechino ha pubblicato un Libro bianco dal titolo «Nuovi progressi nella protezione giudiziaria dei diritti umani in Cina». Viene sottolineata la linea «uccidere meno, uccidere con cautela». La stampa governativa è combattuta nel giudizio su questo caso: da una parte sembra evidente che la vendetta sia stata suscitata da una grave ingiustizia; dall’altra ci si chiede quanti delitti dovrebbero essere giustificati se ogni cittadino che subisce un torto dall’amministrazione pubblica, spesso sorda a ogni ragione o corrotta, si vendicasse come il giovane dello Hebei.
L’80% dei cinesi sostiene la pena di morte per reati di sangue, ma in questo caso l’opinione pubblica chiede la commutazione della pena. Ieri, quando mancavano poche ore per salvare Jia Jinglong, anche il Global Times, quotidiano statale, invitava i giudici a rinviare l’esecuzione.