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 2016  ottobre 24 Lunedì calendario

«Si rinuncia a una bistecca non allo smartphone nuovo sono cambiate le priorità». Intervista a Giuseppe De Rita

ROMA «Ricordate gli anni Ottanta e la grande abbuffata di consumi di lusso? Anche il famoso “ceto medio” poteva comprare caviale e champagne, tanto per usare dei simboli. Molti, se non tutti, per la prima volta dalla fine della guerra avevano accesso ai cibi “alti”. Poi è arrivata la crisi, l’imposizione di una nuova sobrietà, e gli italiani sono stati costretti a fare delle scelte. E magari hanno sacrificato il carrello della spesa a favore di altri consumi…».
Parla più di scelte “obbligate” che di nuove povertà Giuseppe De Rita, presidente del Censis, nel commentare quanto si sono impoverite le tavole di chi non arriva alla quarta settimana.
De Rita stiamo diventando come gli americani? I poveri sono grassi e consumano junk food, i ricchi sono snelli e mangiano bio? 
«No, nonostante la crisi siamo ben lontani da quegli opposti. Da noi, nonostante tutto, e a differenza degli States, la cultura del cibo buono resta trasversale ai ceti sociali. Se quindi una famiglia decide di risparmiare proprio sul mangiare vuole dire che ha fatto una scelta non soltanto economica».
I dati dicono, però, che sono state le famiglie operaie a tagliare, più di altri ceti, la carne, il pesce, addirittura la pasta.
«La crisi ha imposto una restrizione dei consumi, in particolare nelle fasce più basse. È anche vero, però, che dovendo rinunciare a qualcosa, si possa ritenere più importante avere un nuovo cellulare che la carne in tavola tutti i giorni».
La carne, appunto. Ancora un paradigma per misurare la nostra ricchezza?
«Sì, indubbiamente. Sia da un punto di vista simbolico che concreto. L’Italia ha iniziato a considerarsi un paese ricco quando negli anni Settanta la “fettina” è diventata un cibo quotidiano alla portata di tutti. Prima c’erano soltanto pollo e maiale, una volta alla settimana. È stato grazie alle proteine se le nuove generazioni sono diventate alte...».
Chi deve rinunciare alla “fettina” quindi fa parte della schiera dei nuovi poveri?
«Se deve eliminarla del tutto sì. Ma è una fascia di popolazione limitata per fortuna».
Dietro i tagli ai generi alimentari lei vede, dunque, una scala di priorità dove il cibo non è più al primo posto.
«Il termine che amo usare è “arbitraggio”. Noi siamo sempre più arbitri del nostro modo di spendere i soldi. Faccio un esempio: se il budget è ridotto è probabile che una famiglia preferisca andare al discount, o tagliare il consumo di pesce, ma non rinunciare allo sport per i figli, o alla settimana di vacanza. Pensate all’abbigliamento: oggi si spende sempre meno, è quasi tutto low cost».
C’è dunque un ripiego su cibi più scadenti?
«Sì, anche se per fortuna ci salva ancora la dieta mediterranea. Nelle case italiane si cucina. Però ripeto, noi qui parliamo di ceto medio impoverito, di famiglie operaie costrette a fare delle scelte, non di povertà vera. Insomma la fame è un’altra cosa, e io me la ricordo».
Lei è cresciuto durante la seconda guerra mondiale.
«La fame non ci faceva dormire. Ricordo notti insonni a guardare il soffitto con lo stomaco vuoto. E dopo la guerra la felicità di poter avere pane e pasta a volontà. Ci sono voluti anni perché la carne diventasse un alimento consueto. Ma anche la frutta. Per noi esisteva il cocomero e poco di più. Ne prendevi uno grande e ci mangiava tutta la famiglia».
Tagliare sul cibo buono ma non sull’ultimo smartphone.
«Per me è un errore, ma ognuno oggi è arbitro dei propri consumi».