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 2016  ottobre 23 Domenica calendario

Il Grande Gioco del Canale

Sulla plancia del Mahroussa, il panfilo presidenziale, Abdel Fattah al Sisi guardava davanti a se, verso l’orizzonte, fin dove si perdeva il nuovo braccio del Canale. In via straordinaria, era in divisa da feldmaresciallo delle forze armate dalle quali tecnicamente si era dimesso per diventare presidente, ma restando un militare nella mente e nel cuore come ogni suo predecessore, da Gamal Nasser in poi. 
Quel 9 di agosto, l’anno scorso, in un calore infernale al Sisi inaugurava l’ampliamento del Canale di Suez: più navi in transito, più merci, più introiti. Ma non era solo una questione economica: il Canale garantisce il 4% del Pil. In gioco c’era l’Egitto. «Entro un anno il Paese dovrà sentirsi più fiducioso e più sicuro», aveva deciso il presidente. Gli scavi nel deserto erano finiti a tempo di record, 12 mesi. E quando si era aperta la sottoscrizione pubblica per finanziare l’opera, in otto giorni gli egiziani avevano acquistato certificati per quasi 800 milioni di euro. Perché non c’è nulla che rappresenti l’Egitto più del Canale nei suoi 192 chilometri da Porto Said a Suez, eccetto le piramidi e l’Islam.
Lo fu ancora di più il 29 ottobre 1956, un lunedì, quando Moshe Dayan, il capo di stato maggiore israeliano ordinò alla 202ª parà comandata dal colonnello Ariel Sharon, di lanciarsi sul passo strategico di Mitla, nel Sinai: distante 156 miglia dal confine israeliano e solo 45 da Suez. Mentre i paracadutisti ingaggiavano un corpo a corpo con gli egiziani, la fanteria penetrava nella penisola dalla frontiera di Gaza a Nord e di Eilat a Sud. In pochi giorni gli israeliani consolidarono le posizioni a ridosso del Canale. 
A dispetto dell’apparenza, non si trattò di un episodio della lunga guerra arabo-israeliana. Lo fu anche: gli israeliani volevano eliminare i fedayin palestinesi che minacciavano i kibbutz di frontiera, punire gli egiziani che li sostenevano e occupare permanentemente una parte del Sinai. Ma l’obiettivo reale era il Canale e chi ne perseguiva la riconquista non era Israele che per suo interesse stette volentieri al gioco, ma inglesi e francesi: le stesse stanche potenze coloniali ormai prosciugate da due guerre mondiali, che esattamente 40 anni prima avevano ridisegnato i confini del Medio Oriente con gli accordi Sykes-Picot, quando il Canale di Suez era «la porta girevole dell’impero britannico», secondo il conservatore Antony Eden. Intervenendo in Egitto, inglesi e francesi si illudevano che quel potere fosse ancora intatto.
Due anni prima, nel 1954, quando aveva preso il controllo della rivoluzione dei giovani ufficiali egiziani, Gamal Abdel Nasser aveva annunciato i suoi tre grandi obiettivi: rendere l’Egitto una volta per sempre libero dalla tutela britannica, creare forze armate forti per attaccare Israele, costruire una diga ad Assuan per rilanciare l’agricoltura. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il controllo del Canale e dei suoi proventi. Così il 26 luglio 1956 Nasser annunciò in un tripudio di folle arabe dal Marocco ad Aden, la nazionalizzazione della Anglo-French Suez Canal Company.
«Stiamo vedendo in Nord Africa l’alleanza fra pan-slavismo e pan-Islam. Tutto questo è nelle azioni di Nasser, esattamente come la politica di Hitler era stata anticipata nel Mein Kampf», diceva pochi mesi prima il premier francese Guy Mollet al collega inglese Anthony Eden, i due tragici protagonisti di questa storia. La crisi di Suez del 1956 ha alcune similitudini con le guerre mediorientali dei nostri giorni. La demonizzazione del nemico, una cattiva lettura della realtà, l’assenza di un piano per il dopo: più o meno come in Iraq nel 2003 e in Libia nel 2011. Per inglesi e francesi Nasser era il male assoluto che stava sollevando il mondo arabo e si era consegnato ai sovietici: in realtà il leader egiziano aveva ottenuto armamenti da Mosca dopo averli inutilmente chiesti in Occidente e si era rivolto all’Urss perché la Banca Mondiale – cioè ancora l’Occidente – si era rifiutata di finanziare Assuan.
Il 5 novembre, otto giorni dopo l’attacco israeliano, un corpo di spedizione anglo-francese che attendeva da settimane a Cipro, prese d’assalto Suez e la periferia di Porto Said con il pretesto di dividere i combattenti e garantire la riapertura della via d’acqua. Era una messa in scena: il 24 ottobre a Sevres, vicino a Parigi, Mollet, Eden e il premier israeliano Ben Gurion si erano segretamente accordati per l’attacco di Dayan e il successivo intervento anglo-francese. Impegnati nell’organizzazione del loro inganno, i cospiratori avevano ignorato gli eventi che stavano maturando in Ungheria dove il 23 ottobre era scoppiata la rivolta anticomunista e il 4 novembre, il giorno prima dell’intervento anglo-francese a Suez, i carri armati sovietici avevano riportato l’ordine socialista a Budapest. A Mosca non parve vero di poter sviare l’attenzione mondiale dall’Ungheria all’Egitto: arrivò a minacciare l’intervento militare accanto a Nasser. Per gli Usa sarebbe stato imbarazzante condannare i fatti di Budapest e ignorare quelli di Suez. Washington minacciò di vendere le sue riserve in sterlina e impose un ultimatum agli alleati perché si ritirassero dall’Egitto. Per Dwight Eisenhower, il loro intervento era «il più grande errore dei nostri tempi, eccetto la perdita della Cina».C’è una profonda differenza tra la Crisi di Suez e la Guerra dei Sei giorni del 1967. La prima chiuse un’epoca coloniale. «Oggi nel mondo ci sono solo due grandi potenze mondiali, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica», sintetizzò allora Anwar Sadat. «L’ultimatum ha messo Francia e Gran Bretagna al loro giusto posto di potenze non grandi né forti. È una lezione della Storia». Un decennio più tardi, la Guerra dei Sei giorni con l’occupazione dei territori palestinesi, del Golan e del Sinai avrebbe innescato uno dei problemi che dilaniano il Medio Oriente di oggi.