Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 23 Domenica calendario

Vallonia, nella piccola orfana del carbone che blocca Europa e Canada

NAMUR In centro, sotto l’antica e imponente cittadella fortificata che domina la capitale della Vallonia, lungo i viali che costeggiano le Mosa solcata dalle chiatte, qualche semaforo continua a dire “Stop Ceta”. Gli attivisti no global hanno appiccicato al vetro un autoadesivo opaco che, quando il semaforo si accende, lascia trasparire la frase in un bel rosso abbagliante. Ai belgi questo giochino dei semafori parlanti piace moltissimo. Lo trovano molto spiritoso. Ogni anno, per San Valentino, Bruxelles e le città della Vallonia si riempiono di semafori con i cuoricini. Adesso, a quanto sembra, i semafori sono entrati in politica.
Seguendo l’opinione dei semafori, ma anche inseguendo una sorda rabbia sociale che nella regione sta crescendo dalla fase endemica verso quella acuta, il Parlamento della Vallonia, un bel palazzo in mattoni rossi che guarda la Mosa, ha votato contro il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement), l’accordo europeo di libero scambio con il Canada che ora rischia seriamente di naufragare.
Il negoziato, condotto durante sette anni dalla Commissione europea per conto di tutti i Paesi Ue, si era concluso con un’intesa che molti considerano esemplare e vantaggiosa per la Ue. Il 27 ottobre si sarebbe dovuta tenere la solenne cerimonia per la firma del documento, con il premier canadese Justin Trudeau che veniva a Bruxelles per l’occasione. Ma l’incongruenza delle norme europee prevede che, se un accordo commerciale ha conseguenze normative extra-commerciali, debba essere ratificato da tutti i Parlamenti nazionali, oltre che dal Parlamento europeo. E le ancora più incongruenti norme del Belgio, che non a caso si definisce il cuore dell’Europa, prevedono che a decidere sulle questioni di commercio internazionale siano ben sette assemblee parlamentari. Tra cui, appunto, il parlamento regionale Vallone.
E qui entra in scena Paul Magnette. Quarantacinque anni, bello come un attore ma scaltro come una volpe, Magnette è l’erede politico e il pupillo del leader socialista Elio di Rupo. Europeista convinto, si è laureato con una tesi sulla cittadinanza europea, si è specializzato a Cambridge, professore di diritto comunitario ha insegnato, tra l’altro, anche a Pisa e a Parigi. Dal 2014 è presidente del governo della Vallonia, dove storicamente i socialisti sono il primo partito con oltre il 30 per cento dei voti. La regione è governata da una coalizione tra Ps e democristiani, con i liberali del primo ministro belga Charles Michel all’opposizione.È quella di Magnette la testa politica che sta dietro la decisione di bloccare il Ceta. Ma dietro la decisione c’è la triste storia economica di una regione che sembra essere da sempre la vittima predestinata della globalizzazione. Un tempo prospera ed egemone in Belgio, la Vallonia ha cominciato la sua decadenza con la crisi del carbone, messo fuori mercato dal progresso tecnico e dalla concorrenza extra-Ue. Il colpo di grazia è venuto con la crisi della siderurgia, prima corazzata europea ad affondare sotto i colpi della mondializzazione. Da allora sopravvive a fatica, superata in tutto dalle Fiandre, che si sono aperte per tempo alle grandi multinazionali e hanno goduto di un enorme flusso di investimenti dall’estero. L’industria vallone, debole e poco competitiva, è stata lentamente ma inesorabilmente rosicchiata dalla concorrenza mondiale. L’ultimo colpo è stata la chiusura degli impianti dell’americana Caterpillar, con una perdita diretta di duemila posto di lavoro, più almeno altrettanti nell’indotto.
Il risultato di questa lunga crisi, più l’isolamento politico dei socialisti a livello federale, dove sono all’opposizione dopo aver perso la premiership di Di Rupo alle ultime elezioni, ha portato ad un progressivo indebolimento del Ps. Gli ultimi sondaggi lo danno in calo al 25 per cento, mentre l’opposizione di sinistra del Ptb, il Partito del Lavoro, è salita dal 5 al 15 per cento.
Con queste premesse, la scelta di cavalcare l’onda no-global era per Magnette una scelta obbligata. Facilitata dal fatto che i suoi alleati democristiani contano su un elettorato rurale terrorizzato dalla concorrenza dei fortissimi “farmers” canadesi. E il premier la sua battaglia l’ha condotta con finezza da professore di diritto europeo, cogliendo il vero punto vulnerabile dell’accordo: la creazione di un tribunale extragiudiziale per i contenziosi in cui le grandi multinazionali potrebbero, in teoria, chiamare in causa i governi che pratichino politiche ostili. Ma l’ha anche gestita con la spregiudicatezza, l’astuzia e la brutalità che sono pratica corrente e consolidata nei complicatissimi negoziati inter-federali tra le comunità che compongono il mosaico belga.
La considerazione che la Vallonia, con i suoi tre milioni di abitanti, blocca non solo il Belgio, che di abitanti ne ha dieci milioni, ma tutta l’Europa che ne ha mezzo miliardo, non sembra aver influito sulla determinazione di Magnette e dei suoi. Non a caso, del resto, il simbolo che spicca sulle bandiere della regione è il rosso “coq hardi”, il gallo coraggioso. E il suo inno, “Il canto dei valloni” che risale al primo ‘900, recita: «Anche se piccolo, il nostro Paese supera... nazioni ben più grandi». Il Canada è avvertito. E anche l’Europa sarà il caso che si faccia da parte.