la Repubblica, 22 ottobre 2016
L’amaca di Michele Serra
Si può lavorare per anni (anni!) rinnovando di mese in mese il contratto, ogni mese non sapendo che cosa accadrà il prossimo? Certo che si può. Per esempio nei call-center, dei quali si parla molto in questi giorni sindacalmente turbolenti, e nella logistica, settore in larga espansione che funziona quasi per intero con contratti a termine. A prescindere dal salario – che è spesso poca cosa – quello che colpisce è la cancellazione radicale del concetto stesso di futuro: che progetti può fare, come può organizzarsi una vita una persona che non sa neanche se il mese successivo avrà ancora lo stesso lavoro, o un altro lavoro, o nessun lavoro?
Si parla tantissimo della rivoluzione tecnologica e del suo enorme impatto sui comportamenti e sulla psiche; ma la rivoluzione del lavoro – la liquefazione identitaria cui conduce il precariato – è almeno altrettanto sconvolgente e irrimediabile, visto che i vari Jobs Act, non solo in Italia, si limitano a prendere atto della situazione e a regolamentarla blandamente. Come se fosse una malattia irreversibile, qualcosa che appartiene al destino o alla natura e non più alle scelte umane. L’organizzazione sociale sfugge di mano alla politica. La politica può solamente certificarla e, nel migliore dei casi, amministrarla. Ma allora, più che liquida, non sarebbe corretto chiamarla società rigida? Così irrigidita da non potersi piegare più a niente e a nessuno?