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 2016  ottobre 22 Sabato calendario

Renzo Piano: «Ecco la mia università nel cuore di Harlem»

NEW YORK Una delle più grandi università del mondo si rigenera, e così facendo cambia un pezzo della città che la ospita. Investe nel cervello umano, nella battaglia per capire la nostra mente ed anche per sconfiggere malattie come l’Alzheimer e il Parkinson. Si apre a una nuova visione del futuro, unendo la geopolitica e l’ambientalismo.
Scommette sull’arte, in un dialogo con un quartiere ex-operaio e afroamericano. Lì dentro ci andrà anche il prossimo ufficio di un “giovane pensionato” illustre: Barack Obama.
Tutte queste cose avvengono con un’impronta italiana. «Il campus urbano per il XXI secolo», come lo chiama lui, porta la firma di Renzo Piano. Il grande architetto lo inaugura questo lunedì a New York. Forse è la più importante delle sue numerose opere americane, per la dimensione del progetto e per la confluenza di energie che coinvolge: 2,5 miliardi di dollari, in gran parte dal mecenatismo. Si trova sulla Broadway all’incrocio con la 125esima Strada, detta anche Martin Luther King Boulevard, alla punta nord-ovest di Harlem, in un quartiere chiamato Manhattanville. All’inaugurazione insieme con Piano e il presidente della Columbia Lee Bollinger parteciperanno due premi Nobel e altri scienziati delle neuroscienze, perché il primo “pezzo” di università a trasferirsi nel nuovo campus è il Mind Brain Behavior, più di 900 scienziati e ricercatori da tutto il mondo convergeranno per gli studi interdisciplinari sulla mente umana. Poi si aggregheranno, negli altri edifici di Piano, la scuola post-universitaria di relazioni internazionali e geoeconomia diretta da un altro Nobel, Joseph Stiglitz; e The Earth Institute presieduto da Jeffrey Sachs che si dedica all’ambiente.
Il World Project si affaccerà sul fiume Hudson e sarà completato da una School of Arts aperta agli abitanti del quartiere, una zona popolare, con un forum da 450 posti per spettacoli e incontri. Per quanto New York sia abituata a ritmi vertiginosi di trasformazione urbana, questo è un intervento di portata storica, che ridisegna un intero quartiere e gli inventa una vocazione nuova. Il tutto a pochi isolati e una sola fermata di metrò dalla sede principale di Columbia, di cui il nuovo campus diventa una “propaggine” lanciata verso il futuro. «Il cambiamento è netto», mi dice Renzo Piano, «dal vecchio campus urbano costruito 150 anni fa e chiuso da una cinta di mura. Quello nuovo è l’opposto: aperto, accessibile, con il pianterreno dedicato ad attività di confine tra l’accademia e la città. È un pezzo di New York con una storia densa e una fisionomia forte, ai confini di East Harlem, una realtà multietnica e vivace».
Perché il “satellite” di Columbia University non sia un corpo estraneo rispetto alla popolazione del quartiere, Piano mi dice di avere «sollevato gli edifici, in modo che ci sia spazio per la macchina urbana, con i piani terra aperti alla città». Una sorta di rivoluzione, dall’università di un tempo che «formava delle élite protette anche simbolicamente con la cinta attorno al campus». In questo grande progetto lui si vede come «osservatore e sensore di un mondo che cambia, perché è l’università ad aver deciso che vuole cambiare».
Piano ha studiato la storia del quartiere. Manhattanville era un pezzo della vecchia New York industriale, un po’ come il Meat-Packing District dove sorge un’altra sua creatura (Whitney Museum). Qui sorgevano la fabbrica delle automobili Studebaker e la Centrale del latte. La metropolitana in quest’area della città è una sopraelevata, viaggia su strutture metalliche, un oggetto da Novecento industriale. È questa storia ad avere ispirato Piano: «Nella prima fase della sua storia l’America importava stili dall’Europa. Il campus originario di Columbia è pieno di edifici che imitano l’antica Grecia, l’antica Roma, o in finto gotico. Ma oggi l’America un’identità ce l’ha, ed è autentica. È nata con l’industrializzazione. A differenza del campus originario, quello nuovo non ha bisogno di darsi credibilità con delle citazioni di storia altrui, storia europea. Celebra questo paese. Perciò i miei edifici universitari li ho pensati come una fabbrica bianca. Usano un linguaggio industriale, all’oscurità cavernosa del neo-gotico ho sostituito la luminosità trasparente. La luce circola, le tende si muovono come gira il sole, l’edificio respira e gioca con la luce, per creare le condizioni conviviali di un lavoro di squadra fra i 900 ricercatori».
Il tema della fabbrica ritorna continuamente nella conversazione, Piano usa il termine “fabbrica delle conoscenze” quando descrive i dipartimenti di ricerca che si occupano di neuroni, nanotecnologie. Parla di “fabbrica delle arti” per la School of Arts che sarà anche un centro di eventi, dal cinema al teatro. La sua è sempre un’impostazione umanistica, rinascimentale, dove scienza e arte non smettono di dialogare. L’italianità del suo contributo al paesaggio di New York sta anche qui: un’idea della bellezza collegata alla storia del nostro umanesimo. È il coronamento di un progetto nato 15 anni fa, quando per la prima volta lo chiamò Bollinger.
Del progetto si è innamorato anche Obama. Benché abbia deciso di far costruire nella sua Chicago la biblioteca presidenziale che porterà il suo nome, la sua attività di studio e di intervento politico sarà ospitata nel nuovo campus Columbia, anche perché i coniugi Obama vogliono vivere prevalentemente a New York. E il campus di Piano sembra fatto per loro, per i valori in cui credono. «Questa America», dice l’architetto, «ha bisogno di aprirsi al mondo. E le istituzioni più adatte per farlo sono le università. La mia fabbrica universitaria è un luogo per indagare l’emergere di affinità globali, i valori che ci uniscono, non quello che ci divide».