Corriere della Sera, 22 ottobre 2016
Il canotto come le sculture. La forza (magica) dell’oggetto
Canotti, vecchie sedie, porte, vasi di terracotta. Come si è arrivati a fare arte alla maniera di Ai Weiwei e della gran parte degli artisti contemporanei con oggetti già belli e pronti? Non si tratta di una scorciatoia né di una furbizia, come vuole la chiacchera da bar. Ai canotti che decorano le bifore di Palazzo Strozzi come i tondi di Luca della Robbia le arcate di Brunelleschi nello Spedale degli Innocenti, gli artisti sono arrivati dopo un percorso millenario, che ha le radici addirittura nel mito. Se fosse stato scritto, infatti, il libro della Genesi dell’arte avrebbe il seguente incipit: «All’inizio era la scultura» e sarebbe seguito uno dei miti fondativi dell’arte occidentale, quello di Dedalo, cui veniva attribuita la capacità di costruire automi dotati di movimento e parola. Le sue statue, racconta Platone nel Menone, dovevano essere legate per impedire che fuggissero. Un motivo che ricorre anche nella mitologia indo-germanica, in quella giudaica, dove l’automa che prende vita è chiamato golem, e nella Bibbia dove si narra di un Dio scultore che soffiò la vita in un uomo modellato con la creta. In tutte le culture le statue nascono dunque come feticci con poteri magici e per questo sono spesso relegate nel sancta sanctorum dei templi non solo per impedirgli di andarsene, ma anche perché il loro straordinario potere potrebbe addirittura uccidere.
Nel pensiero cristiano, poi, anche dottori della Chiesa come Sant’Agostino sostenevano che le arti demoniache erano in grado di «far entrare degli spiriti invisibili in oggetti visibili fatti di materia». Una credenza che ha condizionato tutto il Medio Evo tanto che ancora al tempo del Ghiberti, alla fine del Trecento, una statua romana di Venere ritrovata a Siena fu fatta a pezzi perché considerata responsabile di alcune disgrazie cittadine. Questo è il motivo per cui il Medio Evo preferì ai volumi, incarnazione del demoniaco, la loro proiezione bidimensionale. Ma c’era anche un’altra ragione: la pittura costituiva un approccio più intellettuale alla riproduzione della realtà, era «cosa mentale», come dirà Leonardo. L’Italia, la terra dove viene inventata la prospettiva, che è una convenzione della rappresentazione, è la prima a sostituire le pale d’altare dipinte a quelle scolpite. La scultura lignea continuerà a ritagliarsi la possibilità di parlare con un linguaggio più verace e diretto, con inflessioni vernacolari, per la gioia dei semplici, mentre la grande scultura, sarà solo in marmo o bronzo.
Così si va avanti per qualche centinaio di anni finché, nel 1917, quando Duchamp firma un comune orinatoio di ceramica e lo porta in mostra, la scultura diventa «objet trouvé» o «ready made», un oggetto trovato, già pronto, cui l’artista conferisce la dignità di opera d’arte. La quotidianità irrompe così nei musei attraverso oggetti comuni e senza valore, ma la «provocazione» di Duchamp, in realtà, chiude il cerchio e si ricollega direttamente al gesto dell’artista mago che conferisce all’oggetto la sacralità del feticcio.
All’artista creatore basta nominare, come fa Dio nella Bibbia; basta dire che quel mucchio di stracci, scarpe o pezzi di plastica è un’opera d’arte. Come il sacerdote quando battezza. La sacralità è infatti un rapporto di fiducia fra sacerdote e credente, indipendentemente dalla forma dell’oggetto per cui, per esempio, si crede che nell’ostia consacrata sia incarnato il corpo di Cristo. Allo stesso modo un comune canotto di Ai Weiwei può valere migliaia di dollari perché il valore corrisponde alla sacralità conferitagli mediante un rito dall’artista sciamano.
L’arte contemporanea, dunque, lungi dal dissacrare l’arte, è tornata a sacralizzare gli oggetti come alle origini. Del resto, qual è il risultato dell’educazione più raffinata, chiedeva Karen Blixen, se non una naïveté riconquistata?