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 2016  ottobre 22 Sabato calendario

Il soldato dell’arte

Firenze è una delle poche città che, nei secoli, è stata capace di generare violenti cortocircuiti tra le opere d’arte e la loro collocazione fisica. Pensiamo solo al bailamme che accompagnò il trasporto del David di Michelangelo fino a piazza della Signoria. O il significato politico della Giuditta di Donatello, oggi nella sala dei Gigli di Palazzo Vecchio ma, dopo la seconda cacciata dei Medici, la repubblica la volle in piazza, come a ribadire che anche nell’arte la sovranità appartiene al popolo. Ecco perché quei gommoni rosa che fino al 22 gennaio sovrasteranno le bifore di Palazzo Strozzi, monito a un Paese che accoglie i migranti in mezzo a mille polemiche, non sono e non saranno mai una semplice installazione: a Firenze Ai Weiwei troverà sempre terreno fertile per la sua arte politica, arte da «combattente», come lui si definisce.
La prova è nei numeri: dopo tre settimane la retrospettiva Ai Weiwei Libero ha raggiunto le 35 mila presenze, più di quanto ci si aspettasse. Non tanto e non solo per gli attacchi giunti da politici e da alcuni cittadini («Ma come, un doloroso simbolo dell’immigrazione sulla facciata di uno dei palazzi più significativi della città?»), ma per un motivo per fortuna più complesso, che affiora se si visita questa mostra estesa, voluta fortemente da Arturo Galansino, direttore della Fondazione Palazzo Strozzi e curatore della rassegna.
Simbolica di certo, perché l’intero palazzo rinascimentale si è interamente aperto alle opere dell’artista cinese – con appendici alla Strozzina, agli Uffizi e al Mercato Centrale. La forza quasi fisica delle opere di Ai ha dunque invaso la città e ha toccato una corda segreta di Firenze, un po’ come quando in piazza apparve il Perseo di Cellini, scultura che aveva quasi «mandato ai matti» (come si dice da queste parti) l’artista, perché il bronzo non si rapprendeva a dovere. Ma dov’è il cuore bruciante di questo cortocircuito che ha fatto parlare tutta la città per settimane? Non è solo in Reframe, l’installazione, sulla facciata, con 22 gommoni di salvataggio. E non è nemmeno soltanto in Snake Bag, formato da 360 zaini scolastici cuciti a formare un serpente – memoria degli studenti vittime delle scuole scadenti crollate nel sisma di Sichuan, nel 2008.
Più che una poetica degli ultimi, quella di Ai Weiwei è una denuncia allargata, a più teste, come se l’artista stesso si facesse ricettacolo di proteste diverse, dalle vittime della censura ai poveri che vivono di stenti nelle campagne cinesi. «Sono un combattente – ripete ai giornalisti – ma sono anche uno che usa bene la tecnologia». Forse il cortocircuito è proprio in questa impossibilità di separare Ai dal suo profilo Twitter, il suo faccione sornione dalle sue installazioni, la sua identità da poco tornata integra (ha riavuto il passaporto cinese solo l’anno scorso) dalla sua porcellana.
L’uomo e l’artista sono inscindibili e, grazie a Internet, Ai da anni raccoglie e trasforma in arte centinaia di voci. Che qui risuonano vive tra gli affreschi e le mura rinascimentali: ci sono le fratture sociali interne alla Cina in Map of China, una mappa (che include Taiwan) fatta con legno tieli proveniente da templi distrutti della dinastia Qing; ci sono i pilastri identitari del suo Paese nelle 950 biciclette impilate a formare l’installazione Stacked; ci sono le riproduzioni di oggetti che gli facevano compagnia durante i quasi tre mesi passati agli arresti, ufficialmente per «reati fiscali»; ci sono le contraddizioni di un governo ambiguo, che da una parte «sfrutta» la sua popolarità e dall’altra lo reprime, come quando, nel 2011, il suo studio (che proprio il governo gli aveva chiesto di edificare) venne raso al suolo senza preavviso. Ai riuscì a portare via parti dell’edificio che ha usato per creare Souvenir from Shanghai. Nelle foto, nei video, nelle installazioni e nelle sculture parlano (anzi, urlano) milioni di cinesi lontani migliaia di chilometri ma avvicinati da quell’autostrada veloce che da qualche anno sono i social network. Ma basta questo a spiegare il cortocircuito?
Ancora no. Perché nessuno dimentichi che Ai è, sì, un combattente; Ai è, sì, un attivista. Ma prima di tutto Ai è un artista. E se non avesse un linguaggio preciso, tutto questo sarebbe poco più di un’espressione di protesta. No, andiamo oltre e guardiamo la preziosa giada con cui ha riprodotto le manette che gli misero ai polsi. Guardiamo il cristallo con cui ha fatto le grucce che gli servirono durante la prigionia. Guardiamo il legno pregiato degli sgabelli, la porcellana (che realizza nel luogo deputato a lavorare questo materiale da secoli, Jingdezhen), la furia iconoclasta con cui distrugge un’urna funeraria della dinastia Han. In Ai, il linguaggio per sovvertire la tradizione è quello della tradizione. Il seme della protesta parte dagli strumenti di quello stesso potere che combatte. Come fecero i fiorentini quando presero una scultura fatta per i signori (la Giuditta) e la vollero in piazza.