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 2016  ottobre 21 Venerdì calendario

«Bilancia era stupido, Pacciani innocente». Intervista a Antonino Marazzita

Non ci fosse stato Gianni Agnelli, l’avvocato italiano per antonomasia sarebbe probabilmente stato lui, Antonino Marazzita, per tutti Nino, nato a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, 78 anni fa e tuttora vitalissimo, attivo su più fronti, sempre impegnato a far la spola tra il suo studio legale situato in zona Fleming (Roma nord) e il Centro Titanus Elios di Via Tiburtina (Roma est), in cui si registra per Rete 4 la trasmissione Forum, del cui cast Marazzita è uno dei pilastri. Penalista di rango, tra i più richiesti del nostro Paese, ha preso parte ad alcuni dei più importanti processi nella storia italiana degli ultimi quarant’anni, affermandosi anche come personaggio pubblico e protagonista delle cronache mondane. Nella sua autobiografia, uscita qualche anno fa per Rizzoli, racconta di come suo padre Giuseppe, avvocato a Palmi e convinto antifascista, allontanasse da sé, alla fine della giornata lavorativa, ogni preoccupazione maturata in tribunale. È così anche per lei? «Sì. Nella mia carriera mi è successo diverse volte di ricevere confidenze scottanti, talvolta relative a vicende delicate della vita politica nazionale, e ho sempre lasciato tutto nel mio studio, evitando di farlo entrare a casa». 
Nella scelta di diventare un avvocato penalista, quanto ha inciso il modello di suo padre? 
«Ha avuto sicuramente un peso. Lui mi ha trasmesso il suo amore per la musica classica e per il latino, ma quando ero ragazzo mi ripeteva spesso che il mestiere di avvocato è pesante, spingendomi addirittura a intraprendere la carriera artistica, prova ne sia che mentre studiavo giurisprudenza frequentavo anche il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dove mi sono diplomato come regista». 
Alla fine, però, ha scelto la toga. 
«Furono determinanti due cose. Il rapporto personale con un grande penalista sardo che esercitava a Roma, Giuseppe Sotgiu, e la mia curiosità verso il male e chi lo commette. Di fronte a un delitto sono istintivamente portato a valutare le evidenze che potrebbero andare a difesa del presunto colpevole». 
Sempre nella sua biografia scrive che quasi tutti gli assassini con cui ha avuto a che fare erano persone di non grande intelligenza. 
«Il cosiddetto genio del male non l’ho mai neanche sfiorato. Il serial killer Donato Bilancia, che ho difeso, è per esempio persona notevolmente poco dotata dal punto di vista intellettivo». 
Eppure non mancano gli individui malvagi che sono stati capaci di lasciare un segno nella Storia: Stalin, Hitler e via elencando. 
«Sono dei bipolari che tendono alla follia e si “curano” attraverso il potere. Il discorso, in proporzione, vale anche per persone meno inclini al male». 
E gli assassini seriali? 
«Prendiamo ancora Bilancia: una volta risparmiò una prostituta dopo che questa, supplicandolo, gli aveva detto di avere un figlio. Non è stato un accesso di bontà: semplicemente, in quella circostanza, il sadismo di Bilancia ha trovato pieno appagamento, avendo lui potuto esercitare su quella donna potere di vita o di morte». 
Per lei il male non ha mai rappresentato una tentazione? 
«Direi di no. E comunque questi criminali sono un ottimo modo per avere a che fare con il male tenendolo lontano da sé. È una continua verifica». 
Le è mai successo di far assolvere qualcuno della cui colpevolezza fosse sicuro? 
«Sì. A Macerata un uomo, salito su un autobus per compiere una rapina, uccise due persone e ne ferì una terza dopo che un brigadiere in pensione, presente sul mezzo, aveva estratto la pistola e gli aveva sparato contro senza colpirlo. Il tizio fu assolto in primo grado e il processo non ebbe un seguito a causa del pm, che scrisse un ricorso inammissibile per un vizio di forma, e del procuratore generale di Ancona, che presentò l’impugnazione con un giorno di ritardo rispetto al termine ultimo. Insomma, l’assassino la fece franca. Gli dissi: “Guarda che lo so che il colpevole sei tu”. E lui mi rispose: “Lo so benissimo che lo sa”». 
Come riuscì a non farlo condannare? 
«Fu assolto per insufficienza di prove. In quel periodo nelle Marche c’era un latitante con un nome simile a quello del mio assistito e io insinuai il dubbio che il colpevole fosse appunto quest’altra persona». 
Le pare eticamente ammissibile sottrarre alla pena chi la meriterebbe? 
«Il mio lavoro consiste nella difesa del cliente, chiunque egli sia, e ha come obiettivo la vittoria della causa. Sono io contro lo Stato, il quale dispone di tutti i mezzi (compresi i vari gradi di giudizio e le impugnazioni, e non è colpa mia se c’è chi non sa sfruttarli bene) per battagliare con me. Dopodiché la decisione ultima spetta al giudice». 
Ha mai conosciuto magistrati che si siano accaniti contro innocenti? 
«Mi sono imbattuto in almeno tre pubblici ministeri che hanno perseguitato delle persone per motivi di risentimento personale. Uno, in Calabria, non riuscendo a ottenere i favori di una minorenne, faceva perquisire di continuo le spiagge di cui erano proprietari i genitori della ragazza». 
Come si è conclusa la storia? 
«Il pm è morto in un incidente automobilistico». 
Lei ha difeso anche Pacciani, il presunto mostro di Firenze. Era davvero innocente? 
«Sia lui che i suoi amici. Lessi la sentenza del processo di primo grado, che lo aveva condannato, perché dovevo partecipare a un dibattito in tv. Non stava in piedi e così decisi di diventare il difensore di Pacciani. Lui e i cosiddetti compagni di merende erano solo dei guardoni toscani, sostanzialmente innocui. Vanni non ha mai nemmeno realmente capito cosa gli fosse capitato e perché fosse rimasto coinvolto in quella storia». 
Il caso Pasolini, nel 1975, è quello che per primo le diede notorietà: lei fu, con Guido Calvi, il legale della famiglia del poeta. Si arriverà mai alla piena verità? 
«Ormai è improbabile. Con l’ultima inchiesta si è persa un’ottima occasione e credo che alcune risultanze, come certe contraddizioni nella ricostruzione di quella notte a Ostia da parte di testimoni oculari, dovessero essere valutate in modo diverso dal pm che ha condotto le indagini». 
Ma perché, dopo il processo di primo grado, venne tolta la presenza di ignoti dalla sentenza che condannava Pino Pelosi? 
«Perché la procura di Roma temeva che nell’omicidio potesse essere coinvolta in qualche modo la politica. Dunque, vero o no che fosse, meglio stare tranquilli e confermare Pelosi come unico colpevole. Poi, a delitto avvenuto, c’è stato da più parti l’interesse a delegittimare definitivamente la figura di Pasolini. L’avvocato Rocco Mangia ricevette 50 milioni dalla Dc per diventare il legale di Pelosi». 
Come fa a saperlo? 
«Me lo confidò lui». 
Lei ha partecipato anche al processo Moro. Chi volle la morte dello statista? 
«Ci fu una micidiale convergenza di interessi tra la Dc, il Kgb e gli Usa. Con il progetto del compromesso storico Moro ha decretato la sua condanna. La vedova, Eleonora Chiavarelli, mi raccontò una volta che il marito tornò atterrito da un viaggio negli Usa perché Kissinger gli aveva fatto capire che, continuando con la sua politica di apertura a sinistra, rischiava grosso». 
Lei era favorevole al compromesso storico? 
«Sinceramente no, da socialista un po’ rigido non vedevo di buon occhio l’accordo con la Dc». 
Si definirebbe ancora socialista? 
«Sì, con simpatie radicali». 
Al referendum del 4 dicembre andrà a votare? 
«Voterò sì. Renzi ha delle idee. Alcune sono sbagliate, altre giuste, ma comunque meglio lui dell’immobilismo della minoranza dem». 
Cosa pensa, nel merito, della proposta di modifica della Costituzione? 
«I principi fondamentali non vengono toccati e quindi sono tranquillo. È un punto su cui mi capita di litigare con il mio amico Stefano Rodotà, che la pensa altrimenti». 
Ha pagato un prezzo per essersi esposto così tanto mediaticamente, anche con episodi di gossip come la relazione con Carmen Di Pietro? 
«Sicuramente. Un periodo si era pensato a me per il Csm, ma la cosa si arenò subito perché ero quello che va in tv e compare sui giornali scandalistici. Tuttavia non ho rimpianti: la mia è una vita piena, sono sempre stato un uomo libero e dal lavoro ho ricevuto infinite soddisfazioni. Forse avrei potuto diventare ricchissimo, anziché essere solo benestante, ma l’avidità, provenendo da una famiglia agiata, non mi è mai appartenuta».