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 2016  ottobre 21 Venerdì calendario

Paolo Conte: «Io, un errante novecentista»

ROMA OGGI alla Festa del Cinema di Roma è la giornata di Paolo Conte. Mario Sesti e Gino Castaldo lo incontreranno alle 18 per parlare della sua musica e, naturalmente, del suo rapporto con il cinema, celebrando una carriera straordinaria, il cui ultimo capitolo è l’album Amazing game, appena uscito.
Un disco tutto strumentale. Il pubblico conosce il suo rapporto con la canzone, ma qual è il suo rapporto con la musica?
«È il fondamento di tutto. Compongo sempre per prima la musica che ne definisce la “forma”, il testo e il racconto vengono dopo. Questo disco è composto da brani che avevo lasciato nei cassetti dopo averli scritti e suonati per colonne sonore di pièce teatrali mai andate in scena, dodici sono stati realizzati per musicare poesie di Montale, o per fare sperimentazioni».
Un Paolo Conte diverso da quello al quale siamo abituati.
«No, non molto, in Amazing game ci sono sempre io con il mio gusto e il mio stile. Ci sono anche brani nati da improvvisazioni, ma sono improvvisazioni moderne, non jazz».
Molte di queste composizioni sono nate su commissione. Cosa le piace nel lavorare in questo modo?
«Lavorare su commissione aiuta a procedere spronati. Non c’è spazio per la pigrizia...».
Quando ha iniziato a suonare il pianoforte e quando a comporre?
«Negli anni Cinquanta e Sessanta. Ero cresciuto ascoltando molto jazz e con quello ho iniziato. Poi è arrivata la canzone».
Concorda con la giuria del premio Nobel? La canzone è una delle molte forme della letteratura?
«Lo è come il teatro, come fu per Dario Fo e, forse, già prima Pirandello. Diciamo che la canzone non è “obbligata” a contenere esplicitamente poesia e letteratura. La canzone è una forma d’arte “in movimento” e questo la rende viva».
Testo e musica hanno senso separatamente? Uno può vivere senza l’altra?
«Personalmente comincio sempre dalle sensazioni che mi dà la musica, passare al testo è più difficile, parto alla cieca, cerco l’ispirazione, cerco soprattutto di far suonare le parole».
Oggi a Roma parlerà di cinema. Il suo immaginario cinematografico è molto ricco, il suo modo di scrivere canzoni è cinematografico?
«Nelle mie canzoni ci sono sceneggiatura e recitazione, come nel cinema, ma resto convinto che sia la composizione musicale a “fare la pagina”, a condurre il gioco, a dettare temi e immagini».
Ricorda il primo film che l’ha veramente colpita?
«Credo fosse Bascomb il mancino con Wallace Beery. Un western del 1946. L’ho visto in una sera nebbiosa in un piccolo cinema di Asti. Aveva pochissima trama, ma mi ha toccato enormemente. Capivo che sullo schermo passava qualcosa d’importante, ma non sapevo cosa. Il cinema allora era una finestra su un mondo misterioso».
C’è una colonna sonora che ha amato particolarmente?
«Quella di Il terzo uomo: Alida Valli, Joseph Cotten, Orson Welles...».
Come vive un novecentista come lei nel nuovo millennio?
«Da novecentista errante. Non riesco a rinunciare al lavoro che ho fatto da modernista, rispetto alla semplicità odierna. Per cui non posso sentirmi attuale. Ma non mi pongo il problema, non mi sono mai dato scadenze».