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 2016  ottobre 20 Giovedì calendario

La presa di Mosul e la pace difficile

L’attacco a Mosul è una scommessa rischiosa, che può essere vinta o persa dall’Occidente e dai suoi alleati anche a prescindere dall’esito del castigo militare che si vuole infliggere agli uomini del Califfato. Non a caso la battaglia è stata preceduta da molti mesi di preparazione più politica che operativa, e non a caso i contrasti etnici e i diversi interessi strategici scuotono ancora oggi, mentre l’offensiva è in corso, il variegato fronte dell’armata anti Isis.
Le milizie sciite telecomandate da Teheran non dovranno entrare a Mosul, per evitare che possano prendersela con la popolazione sunnita? Lo assicura il governo iracheno e lo prevedono gli americani che discretamente dirigono le operazioni, ma resta da verificare se gli sciiti obbediranno sapendo che a Bagdad comandano i loro correligionari e che gli Usa, con le elezioni alle porte o appena passate, più di tanto non potranno fare. I peshmerga hanno fama di ottimi soldati, ma il premier iracheno Abadi vuole limitare il loro contributo perché teme le rivendicazioni curde su Mosul. E anche i turchi hanno mire sulla città che è stata a lungo ottomana: per questo vogliono partecipare alla battaglia, e poi sedere al tavolo della pace. Tutte mine etnico-politiche che possono esplodere più facilmente se gli uomini del Califfato terranno duro fino alla fine come stanno facendo nella ridotta libica di Sirte, se lo scontro comporterà gravi perdite civili o se i civili diventeranno gli «scudi» dei jihadisti.
C he possono insomma esplodere se il prezzo della vittoria risulterà tanto alto da affiancarsi per settimane o per mesi alla carneficina siriana di Aleppo. L’America del vecchio o del nuovo presidente potrebbe sopportarlo? E cosa accadrebbe se alla battaglia di Mosul si accompagnassero, come temono alcuni servizi occidentali, una nuova offensiva terroristica in Europa, e il non pacifico ritorno a casa di un buon numero di foreign fighters sedotti a suo tempo dai messaggi dell’Isis?
Anche nella migliore delle ipotesi, quella di una presa militare di Mosul che segnerebbe la fine del Califfato in Iraq e il contenimento dell’Isis nel territorio siriano, la via della vittoria è irta di ostacoli e di possibili derive. Ma quel che può accadere «durante» la battaglia, malgrado il sangue che sarà versato per infliggere ai tagliagole la loro prima e necessaria sconfitta (con i militari italiani impegnati in prima linea nel recupero dei feriti), rischia di diventare un episodio di contorno rispetto alle trappole pronte a scattare «dopo» la battaglia.
Nel day after della vittoria, le trombe potrebbero non squillare a lungo. Di sicuro il turco Erdogan rivendicherebbe a favore dei turcomanni e dei sunniti a lui legati, vale a dire a favore di Ankara, il «mantenimento degli equilibri di Mosul» che già va reclamando. Ma sarebbero altri equilibri, quelli interni all’Iraq, a decidere tra l’avvio di una pace che potrebbe poi contagiare la Siria e la paradossale disgregazione del Paese «vittorioso». Con lo scontato seguito, in questo secondo caso, di una guerra civile dal cui esito nascerebbero nuovi confini e nuove liti locali e regionali.
Se questa è una prospettiva oggi realistica, lo si deve a una serie di errori prima e di egoismi etnico-religiosi poi. Quando gli americani abbatterono il sunnita Saddam (che non suscita certo rimpianti) e consegnarono il potere iracheno alla maggioranza sciita, i confratelli iraniani ricevettero in dono una autostrada nuova di zecca per le loro ambizioni. Non solo. I governi iracheni, dopo il ritiro Usa nel 2011, se ne infischiarono delle promesse fatte a Washington e costruirono un potere esclusivamente sciita, escludendo man mano i sunniti e osteggiando la semiautonomia dei curdi. Il Paese si è così di fatto diviso tra sciiti, sunniti e curdi a suon di polemiche e di attentati, mentre altre sanguinose rivalità esplodevano all’interno di ognuna delle tre fazioni.
La conquista di Mosul, quando avverrà, sarà un bivio tra la spaccatura lungo linee etnico-confessionali e riforme sin qui mai attuate che parlino di parità e di riconciliazione, di autonomie e di ricostruzione, di ripartizione dei proventi petroliferi (peraltro in calo) e di nascita di un parlamento non settario e corrotto come quello attuale. Per vincere davvero a Mosul si deve poi vincere a Bagdad, questa è la doppia battaglia appena cominciata. Con Assad e Putin spettatori interessati.