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 2016  ottobre 01 Sabato calendario

A proposito dell’ultimo libro di Tom Wolfe

Chi già ama Tom Wolfe, da agosto ha un motivo di più per adorarlo.
Chi non lo conosce ancora, ha un’opportunità fantastica di incontrarlo per la prima volta, grazie al suo «The kingdom of speech», uscito negli Stati Uniti da pochissime settimane. Wolfe è l’uomo (oggi un energico e sempre elegantissimo 85enne) che forse ha più innovato il romanzo americano negli ultimi decenni, introducendo uno stile e una tecnica personalissimi.
Ed è soprattutto il nemico giurato dei radical-chic, termine da lui stesso coniato in un famoso articolo del 1970 quando, con grande scorno degli interessati, raccontò l’allucinante serata in cui, in un sontuoso attico newyorkese a Park Avenue, la moglie del direttore d’orchestra Bernstein invitò ad un party esclusivo alcuni signori ultraricchi per finanziare il gruppo estremista (marxista-leninista) delle Pantere Nere! Da allora ad oggi, Wolfe non ha mai smesso di tormentare un certo conformismo progressista e le sue contraddizioni.
Questa sua ultima fatica può essere letta su due piani.
Il primo è la demolizione di due idoli del «politically correct»: Noam Chomsky e (addirittura!) Charles Darwin. Vediamo come.
Wolfe esordisce documentando (ecco il gusto di una formidabile inchiesta giornalistica, sia pure condotta su fatti di due secoli fa!) il modo subdolo in cui Darwin, gentiluomo della più alta società inglese, si sia in realtà appropriato della «teoria dell’evoluzione». Il racconto, irresistibilmente comico nel suo svolgimento, ispira un profondo senso di simpatia per il vero scopritore, e cioè l’oscuro giovane ricercatore Wallace.
Il malcapitato Wallace elabora la teoria, invia ingenuamente alcune decine di cartelle all’autorevole Darwin affinché le valuti e lo aiuti a essere introdotto nell’alta società scientifico-accademica, e invece Darwin (dopo aver girato intorno al tema per anni, ma senza mai riuscire a scrivere una riga) è lestissimo a sintetizzare la teoria in un documento succintissimo (un «abstract», come si dice) e poi a presentare entrambi i lavori (ma ovviamente con priorità per il proprio!) alla Linnean Society.
Morale: nei mesi e anni successivi, la teoria diventa inevitabilmente di Darwin, come sappiamo. Ma la polemica culturale che si scatena in tutta Europa (la messa in discussione della distinzione assoluta tra mondo umano e mondo animale, la contestazione dell’origine religiosa della vicenda umana, la «morte di Dio», eccetera) mentre fa di Darwin quella che oggi si definirebbe una celebrity, dall’altro lato lo porta su posizioni estreme che forse non sono nelle sue corde. Dinanzi a queste esagerazioni, il «nemico» Wallace torna in scena, e pubblica un libro più moderato in cui spiega come la teoria della selezione non possa essere meccanicamente applicata agli uomini.
Questa teoria può forse spiegare la sopravvivenza delle specie animali in un ambiente ostile (e quindi ecco l’adattamento, la trasmutazione, l’evoluzione, appunto), ma non può mettere in discussione la radicale diversità e unicità della specie umana (dotata di linguaggio, pensiero, memoria del passato, e così via). E in questo modo, celebrando la finezza della distinzione operata da Wallace, Wolfe fa giustizia di come Darwin, appropriandosi frettolosamente di una tesi, non abbia saputo lui stesso evitare una rozza omologazione degli uomini alle altre specie viventi.
L’altro idolo infranto è Noam Chomsky. Qui Wolfe, se possibile, è ancora più perfido. Racconta di come il giovane Chomsky, già negli anni Cinquanta, sia assurto ai vertici della linguistica mondiale, imponendo le sue tesi e costruendo un sistema rimasto a lungo inattaccato: l’idea di Chomsky, in supersintesi brutale, è che esista una «grammatica universale», cioè regole mentali innate valide per tutti gli esseri umani, che porterebbero (nello stesso modo in ogni diversa cultura, lingua, società) i bambini a imparare le lingue e a formulare le frasi.
All’autorevolezza accademica derivante da questa teoria, Chomsky aggiunge a partire dall’opposizione alla guerra in Vietnam l’acquisizione di un alone quasi mistico, diventando il simbolo dell’intellettuale di sinistra impegnato, che prende posizione su tutto, in perenne lotta contro il capitalismo, il libero mercato, l’America stessa, e così via.
Per Wolfe è troppo gustoso far cadere dal piedistallo un tipo così, e quindi (altra lussuosa inchiesta giornalistica!) l’autore si diverte a prendere le parti di un giovane ricercatore, sempre nel campo della linguistica, Daniel Everett, che «osa» mettere in discussione i paradigmi chomskiani, e dimostra oltre ogni ragionevole dubbio l’esistenza di una minuscola e sconosciuta tribù dell’Amazzonia brasiliana (i Piraha: non più di 500 individui) i cui membri, nel loro linguaggio e nella loro comunicazione, non seguono le «universali» leggi di Chomsky.
Qui il sarcasmo di Wolfe raggiunge vette straordinarie, nella doppia descrizione del super-barone universitario Chomsky chiuso nel suo comodo ufficio del Mit (dal quale esce solo per convegni e conferenze) e la faticaccia in Amazzonia del povero Everett (tra «selvaggi» più o meno amichevoli, e minacciato da anaconde e insetti-killer), contro cui gli accoliti di Chomsky, in mancanza di meglio, cercano di fabbricare nientemeno che un’accusa di razzismo!
Wolfe celebra Everett, e coglie l’occasione per una sorta di «morale della favola». Il linguaggio non è l’evoluzione proprio di nulla (con buona pace sia di Darwin sia di Chomsky): è un attrezzo, un manufatto che l’uomo è stato capace (in contesti diversi) di costruire, e che spiega meglio di ogni altra cosa la meraviglia umana. Non è solo un’arma: è, per la nostra specie, l’arma nucleare che consente e innesca la memoria, il pensiero e la sua pianificazione, lo sviluppo della matematica e dell’arte e di ogni altra attività umana. Con quest’arma, l’uomo ha potuto colonizzare e dominare gli altri animali e il mondo. È questo è solo il lato esterno: poi c’è (non meno appassionante) il lato interno, anch’esso prodotto dal linguaggio: la scoperta dell’io, la consapevolezza, il pensiero, la filosofia, il rapporto con se stessi e con gli altri, il senso della vita...
Accennavo prima al fatto che il libro di Wolfe possa essere letto su due piani. Il primo è questa spietata e spassosissima requisitoria contro i grandi imputati Darwin e Chomsky. Ma il secondo piano di lettura, più generale, richiama quanto dicevo all’inizio sul meraviglioso piacere di Wolfe nell’abbattere tutti i feticci del politicamente corretto, nel violare tutti i santuari del conformismo. La lezione più profonda sta proprio qui: tra l’establishment e l’outsider, ci spiega Wolfe, è sempre il secondo che merita la nostra simpatia. A maggior ragione se l’establishment si definisce «progressista» ma assume su di sé tutti i vizi del peggiore immobilismo: il più insopportabile dogmatismo, una assoluta rigidità ideologica, e l’attitudine a preferire l’autoritarismo all’autorevolezza.