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 2016  ottobre 01 Sabato calendario

In morte di Bernardo Caprotti

Vincenzo Chierchia per Il Sole 24 Ore
È morto Bernardo Caprotti, imprenditore milanese protagonista della modenizzazione del sistema commerciale italiano, proprietario del gruppo Esselunga, top performer nella grande distribuzione. Caprotti (foto) avrebbe compiuto 91 anni il 7 di ottobre, l’annuncio della scomparsa è stato dato dalla moglie Giuliana.
La sua è una storia esemplare di capitano d’impresa, dal carattere difficile, assai spigoloso, ma sempre aperto al riconoscimento del valore del lavoro e dell’innovazione.
Bernardo Caprotti nasce in una antica famiglia di imprenditori tessili della Brianza con un’attenzione anche al settore immobiliare. E la marcata propensione all’investimento nel real state costituirà un tratto caratterizzante della sua straegia.
Le radici della famiglia Caprotti sono ad Albiate, tra Milano e Lecco, dove la storica villa di famiglia custodisce l’archivio di una famiglia che ha scritto capitoli importanti della modernizzazione del settore commerciale.
Decisivo nella sua formazione il lungo soggiorno negli Stati. all’inizio degli Anni 50, per studiare le innovazioni nell’ambito dell’industria tessile americana e della finanza d’impresa. Anni di gran fermento negli States e di importanti esperienze per il giovane Bernardo, fresco di studi giuridici in Italia, che lasceranno il segno nella sua storia di imprenditore.
Nel 1952 Bernardo torna in Italia per la prematrura scomparsa del padre Giuseppe e assume la direzione della Manifattura di famiglia.
Ma l’America non resta solo un ricordo. Nel 1957 la svolta. Bernardo, con i fratelli Guido e Claudio partecipa al progetto elaborato dal magnate Usa Nelson Rockefeller che intende sviluppare in Italia i supermercati modello americano. Nell’operazione ci sono anche i Crespi e d un altro imprenditore milanese, Marco Brunelli. Alla fine del novembre del 1957 apre i battenti il primo dei Supermarket italiani in una ex officina di Viale Regina Giovanna a Milano.
La formula ha successo, Max Huber disegna la grande Esse. Sono gli anni del boom economico, i consumi volano. Di lì a qualche anno, con il ritiro di Rockefeller dall’operazione, Bernardo resterà via via da solo al comando di quella Esselunga che, grazie a prezzi corti, come recita lo slogan più riuscito della casa, si imporrà come punto di riferimento nella nascente grande distribuzione italiana. Nel 1965 si contavano già 15 supermercati, di cui 10 a Milano e 5 in quella Firenze che vede importante il ruolo anche della distribuzione cooperativa, il gigante Coop con il quale Caprotti sarà praticamente sempre in polemica e in giudizio. Una decina di anni diventò subito un best seller il libro Falce e carrello nel quale Caprotti raccontava i suoi rapporti burrascosi con la Coop.
Oggi Esselunga fa circa 8 miliardi di fatturato, oltre 22mila dipendenti e più di 150 punti vendita. Modi bruschi e diffidenti, Caprotti è stato attentissimo al valore dell’innovazione come fattore di competitività e redditività. Qualità, assortimento e logistica i fattori chiave della sua formula commerciale, insieme al posizionamento nelle aree di riferimento. Al tempo stesso attenzione costante al valore dell’investimento immobiliare come elemento propulsivo per la crescita commerciale. Oggi ci sono una ventina di operazioni aperte tra nuovi investimenti e ristrutturazioni.
Innovazione con i supermarket e con i superstore, gli ipermercati di città e delle aree urbanizzate. Ma anche attenzione forte al rapporto con l’industria, alle marche commerciali seguendo l’esempio anglosassone, al valore delle promozioni,delle carte fedeltà, del biologico, dei prodotti freschi e dell’e-commerce. Negli anni Esselunga è stata una università della grande distribizione e lo stesso Caprotti ha avuto sempre una grande attenzione per l’alta formazione: componente del Cda dell’ateneo Milano-Bicocca e accademico di Brera ebbe anche la laurea honoris causa in architettura. Per Esselunga hanno lavorato, tra gli altri, Ponti, Gardella, Caccia Dominioni, Magistreti, Botta e Camassi. Importante il mecenatismo di Caprotti nel campo dell’arte: nel 2013 la donazione alla Pinacoteca Ambrosiana di un dipinto su tavola del XVI secolo, acquistato nel gennaio 2007 da Sotheby’s per 440mila dollari.
«Il Dottore vivrà ancora nella sua straordinaria impresa»: Pier Luigi Bersani, esponente Pd e ministro negli anni 90 della modernizzazione commerciale ricorda così Caprotti. «Se ne va un uomo particolare, un uomo che emozionava. Se ne va uno dei più grandi imprenditori italiani» aggiunge. Le feroci polemiche con la cooperazione «rossa», di un imprenditore che a tratti fu simpatizzante di Berlusconi, sono solo un ricordo. «Sono debitore a Bernardo Caprotti della sua genialità imprenditoriale, come lo sono molti italiani, in più io gli sono grato per l’onore che mi ha riservato di una sincera amicizia. Con lui scompare un uomo creativo, capace di cogliere le nuove esigenze della società, di creare lavoro e occupazione» dice Maurizio Lupi, presidente dei deputati di Area popolare.
«Buon viaggio Bernardo, genio di Esselunga, grande uomo, grande imprenditore e amico del Made in Italy, mai servo di nessuno» commenta il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini.

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Francesco Spini per La Stampa
Scompare a 90 anni il re dei supermercati. Bernardo Caprotti, fondatore dell’Esselunga, si è spento ieri sera alla clinica Capitanio di Milano, dove era ricoverato da qualche giorno per problemi polmonari sopraggiunti dopo un incidente domestico. La sua vita è stata un’avventura tra gli scaffali, cominciata nel 1951 in un viaggio in America dove scoprì il supermarket. E proseguita dal 1957, quando fece scoprire all’Italia del boom - inizialmente grazie a un accordo con i Rockefeller - la grande distribuzione, con il primo negozio in viale Regina Giovanna a Milano.
Incarnava la classica figura dell’imprenditore vecchio stile. Un padre-padrone, che piombava a sorpresa nei supermercati e verificava di persona che tutto funzionasse a dovere. Un impero il suo: 151 punti vendita, 22 mila collaboratori, 7,3 miliardi di fatturato. La battaglia più fiera l’ha combattuta contro le Coop su cui e contro cui ha scritto un libro di buon successo, «Falce e martello», in cui raccontava gli ostacoli incontrati dal suo gruppo quando ha provato a espandersi nelle regioni «rosse».
Ora lo rimpiangono tutti, a sinistra (Pierluigi Bersani commemora «un uomo particolare, un uomo che emozionava») come a destra («Il genio di Esselunga», dice Matteo Salvini). E mentre sulla pagina di Esselunga su Facebook a centinaia lasciano messaggi di cordoglio, già si intravede la battaglia per la successione.
Gli ultimi anni di vita sono stati segnati dal litigio con i figli avuti dalla prima moglie Giorgina Venosta (Giuseppe, in passato ad dei supermercati, e Violetta, quest’ultima accanto al papà nelle ultime ore) a cui nel 2011 aveva revocato le intestazioni fiduciarie del 100% della holding che controlla l’Esselunga. Ne è nata una lunga battaglia giudiziaria che il patron aveva finora vinto in ogni grado. Restavano l’amarezza e la volontà, negli ultimi mesi, di trovare una soluzione per il futuro del gruppo, su cui ora si aprono nuove incognite. Negli anni sono saltate, un po’ per il suo caratteraccio, un po’ per le contese in famiglia, due possibili cessioni alla spagnola Mercadona e all’americana WalMart. Ora c’è l’interesse di due fondi come Cvc e Blackstone. Fondi a cui Caprotti, amante dell’industria, sospettoso della finanza, difficilmente avrebbe venduto. La moglie Giuliana Albera (da cui ha avuto l’ultima figlia Marina Sylvia), ha segnalato le ultime volontà di Bernardo: funerali privati e niente necrologi.

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Giovanni Pons per la Repubblica
Esce di scena a quasi 91 anni (li avrebbe compiuti il 7 ottobre prossimo) Bernardo Caprotti, l’imprenditore dell’Esselunga famoso per aver portato in Italia il modello dei supermercati. Nato da una famiglia di industriali tessili, cotonieri, nel 1951 viene mandato dal padre in America per impratichirsi nell’industria del cotone, e lo fa con grande dedizione lavorando nelle catene di montaggio ma anche alla borsa cotoni di Wall Street. Al suo ritorno comincia la sua esperienza nell’azienda di famiglia ma nell’estate del 1952, alla morte del padre, si trova a dover prendere in mano insieme ai fratelli le redini della gestione.

L’avventura nel settore della grande distribuzione ha inizio nel 1957 quando Nelson Rockefeller propone alla famiglia Caprotti di entrare in joint venture nella nascente fondazione della Supermarkets Italiani spa, la prima catena di supermercati «all’americana» che nasce nella penisola. All’inizio i Caprotti prendono solo il 18% della neonata società dove sono presenti anche altre famiglie dell’imprenditoria lombarda, come i Crespi con il 16% e l’industriale Marco Brunelli. L’inaugurazione del primo punto vendita risale al 27 novembre del 1957 in una ex officina di viale Regina Giovanna a Milano. Il pubblicitario Max Huber pone una S con la parte superiore allungata che arriva fino alla fine della scritta «Supermarket» che in seguito diventerà Esselunga grazie anche a una famosa campagna pubblicitaria che recita «Esse lunga, prezzi corti». Caprotti capisce ben presto le potenzialità di sviluppo della nuova iniziativa, riesce a comprare da Rockefeller il 51% della società per 4 milioni di dollari e si lancia in una battente politica di espansione sul territorio italiano.
Nel 1961 viene aperto il primo punto vendita in Toscana e nel 1965 la catena può già contare su quindici supermercati sparsi tra Milano e Firenze. Caprotti ha la stoffa dell’imprenditore di razza e grande fiuto per gli affari. Parlava tedesco, francese e inglese, nella sua vita è stato filantropo e mecenate. Nel corso degli anni alla guida della sua creatura si è fatto conoscere per la grande severità nei confronti dei dipendenti anche se li ha sempre pagati bene. Dagli americani ha acquisito in fretta i segreti per avere successo nel business della grande distribuzione. Grande esperto di storia militare, sa che le battaglie si vincono sulla logistica e applica questo principio al business.
Alla base del successo di Esselunga vi è infatti un grande investimento nella logistica, che ha portato a creare tre grandi poli automatizzati in cui la merce arriva e viene immediatamente smistata nei punti vendita. Il secondo segreto risiede all’interno dei supermercati, nei layout, pensati con poco «retrobottega » e molto scaffale, in modo da avere più merce esposta e quindi più ricavi per metro quadrato, un indice in cui Caprotti è sempre stato leader in Italia. E poi la specialità del «fresco», nata sull’idea di sostituire i mercati rionali, un segmento dove i margini di guadagno sono più elevati e da cui oggi l’azienda trae il 12% del fatturato totale che ha raggiunto i 7,3 miliardi di euro.
Chi ha collaborato con Caprotti lo descrive come un uomo duro, lavoratore indefesso che ha sacrificato tutto sull’altare dell’azienda e degli affari, passando sopra a chi gli si metteva di traverso. Politicamente di destra ingaggiò la più dura battaglia con il mondo delle cooperative pubblicando nel 2007 il suo libro intitolato «Falce e carrello» nel quale sosteneva di aver incontrato ostacoli all’espansione del suo gruppo nelle regioni “rosse” accusando le Coop di gravi scorrettezze commerciali, oltre che di intrecci con le amministrazioni guidate dalla sinistra. Coop Italia reagì querelando e nel 2011 il tribunale di Milano diede ragione alla parte ricorrente sentenziando che il libro integrava «un’illecita concorrenza per denigrazione ai danni di Coop Italia». Esselunga fu così condannata per concorrenza sleale a un risarcimento di 300 mila euro e al ritiro del pamphlet dal mercato. Ma pochi mesi dopo la prima sezione civile della Corte d’Appello di Milano accolse la richiesta di sospensiva presentata da Esselunga contro la precedente sentenza.
Caprotti era un uomo sanguigno, diventato famoso tra i suoi dipendenti per le ispezioni nei supermercati al sabato mattina quando l’afflusso di clienti è il più alto della settimana. Ma molto spesso la stima per le sue capacità imprenditoriali superavano i giudizi sull’uomo, burbero e senza scupoli. «Se ne va un uomo particolare, un uomo che emozionava. Se ne va uno dei più grandi imprenditori italiani. Ma il Dottore vivrà ancora nella sua straordinaria impresa», ha ricordato ieri sera a botta calda Pier Luigi Bersani. Giudizio non dissimile da quello espresso quasi contemporaneamente dal leghista Matteo Salvini «Buon viaggio Bernardo Caprotti, genio di Esselunga, grande uomo, grande imprenditore e amico del Made in Italy, mai servo di nessuno. Grazie».

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Stefano Filippi per il Giornale
Il «Dottore» se n’è andato. Non varcherà più al mattino, come ha fatto per tanti anni con passione italiana e puntualità svizzera, le porte a vetri della sua Esselunga a Limito di Pioltello. Non si appunterà più al taschino della giacca scura il badge bianco con nome e cognome, Bernardo Caprotti, regola interna che applicava come un dipendente qualsiasi. Non detterà più gli appunti alla segretaria Germana Chiodi, non convocherà più l’amministratore delegato Carlo Salza. Non farà più impazzire i capi delle Coop né darà altro lavoro agli avvocati. Non girerà più la penisola in cerca di luoghi adatti a nuove aperture. Non metterà più piede nei suoi negozi, la grande passione segreta ma non troppo che coltivava il sabato mattina quando provava gusto a comparire in qualche supermercato Esselunga per fermarsi al banco-frigo della frutta e chiacchierare con i clienti, coglierne desideri e grado di soddisfazione, e tra una battuta e l’altra controllare pure se tutto fosse a posto.
Bernardo Caprotti non darà più filo da torcere ai sindacati, che sfidò a viso aperto negli anni di piombo, nella stagione dei picchettaggi violenti e degli espropri proletari, riuscendo dopo «vent’anni di tormento» a piegare la contestazione senza cedere al ricatto degli scioperi. Non ammodernerà più l’industria della grande distribuzione alimentare, da vero pioniere quale è stato, come fece quando aprì il primo supermarket italiano, introdusse i codici a barre alle casse e nei magazzini, e inventò il modo di pagare la spesa senza code. Non impartirà più lezioni di come si costruisce un’azienda e la si fa diventare grande e florida in un Paese che non sopporta chi dà lavoro, chi rischia in proprio, chi valorizza il merito, chi ama l’eccellenza, il bello, il buono. Lezioni che Caprotti ha elargito a modo suo, con tanti fatti e pochissime parole. Altro modo di comportarsi mal tollerato da queste parti.
Il patron di Esselunga è un eroe italiano che l’Italia non si è meritata. Un uomo curioso, coraggioso, di un rigore calvinista, che voleva piantare e far crescere «il germe della modernizzazione». Un liberale autentico, antifascista e anticomunista in pari grado. Un imprenditore che vedeva le cose prima e meglio degli altri, come uno scacchista che mentre muove una pezzo prevede già le successive mosse. E sa che darà scacco matto. Parlava di rado: mai data un’intervista prima di pubblicare il celeberrimo Falce e carrello, nel 2007. Non amava i fronzoli, andava dritto al punto. Era inflessibile, e lo era con tutti, dai figli ai dipendenti, dai fornitori ai collaboratori più stretti: ma poteva permetterselo perché il primo cui non perdonava nulla era lui stesso.
Ha fatto sconti soltanto ai milioni di clienti che hanno decretato il successo di Esselunga, un gioiello italiano, un gruppo cresciuto per la sola forza del marchio e degli uomini che l’hanno costruito. Il carattere schivo e lo stile essenziale avevano cucito addosso a Caprotti l’immagine di una figura altera. In realtà era un uomo di grandi passioni e quella con l’Esselunga è la storia di un innamoramento. Figlio di una dinastia di imprenditori tessili brianzoli, dopo la laurea fu mandato in Texas a imparare come si lavora il cotone. Lì, nel profondo Sud, vide queste strane botteghe, i «supermarkets», che vendevano di tutto. Quando i Rockefeller esportarono in Italia quel business, Caprotti fu della partita. E quando essi decisero di investire altrove egli ne rilevò l’attività abbandonando la manifattura di famiglia perché «colpito dal bacillo del retail», come scrisse nel suo bestseller. In realtà era il colpo di fulmine.
Gli States gli sono entrati nel Dna, dal modo di lavorare a quello di parlare: aveva il vezzo di usare parole o esclamazioni in inglese, tanto che la società capofila ha mantenuto la denominazione di Supermarkets italiani Spa. Esselunga è il frutto dell’unione tra la forza innovativa d’oltreoceano e la personalità di Caprotti. Edifici disegnati da grandi architetti perché la bellezza - la «visual art» - non è un accessorio. Prodotti di qualità al giusto prezzo perché la soddisfazione del cliente è il primo obiettivo. Ordine, cortesia, scaffali sempre riforniti secondo un modello organizzativo custodito con orgoglio geloso che prevedeva i «superstore» (non gli iper) riforniti più volte al giorno da «warehouse» (centri di distribuzione) interni.
Fu proprio per difendere la specificità dell’azienda che si decise a scrivere Falce e carrello, pubblicando montagne di documenti archiviati in anni e anni di torti subiti da giunte rosse a lui ostili e compiacenti con le coop. Il volume apparve nel 2007, lui aveva 82 anni e da poco aveva ripreso le redini del gruppo rispedendo a casa in limousine di lusso il management dell’epoca. Era l’ennesima sfida al potere consolidato, quel blocco tra politica, amministrazioni locali e imprenditoria assistita che gli aveva impedito di insediarsi in una parte del Paese.
Suo malgrado, Caprotti divenne un personaggio pubblico, il simbolo di tanti capitani d’industria che combattono in silenzio contro la burocrazia e altri nemici invisibili ma reali. Gente che non si arrende e investe con successo anche in tempo di crisi. Negli ultimi anni il cruccio maggiore è stato il rapporto con i figli maggiori, svoltosi più in tribunale che in famiglia. Un temperamento forte, un patrimonio importante, diversi modi di vedere il futuro aziendale. Ferite non rimarginate. Un balsamo gli giunse dai dipendenti il 7 ottobre dell’anno scorso, compleanno numero 90: i 22.218 lavoratori dell’Esselunga comprarono una pagina del Corriere della Sera e una del Wall Street Journal per augurare al «Dottore» (naturalmente in inglese) «never give up», mai mollare. La tempra di Caprotti ha retto fino a ieri. Ora ha qualcun altro con cui discutere di talenti, di pane e di pesci.


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Alberto Mattioli per La Stampa
L’invito arrivò dopo che avevo scritto un pezzo sull’aspra battaglia burocratica per aprire una grande Esselunga a Modena, nell’Emilia rossissima dove di regola i supermercati o sono Coop o non ci sono. Il reportage, apparentemente, gli era piaciuto. «Perché non viene a trovarmi con il suo direttore?». Detto fatto. Così il direttore, che all’epoca era Mario Calabresi, e il soprascritto partirono alla volta di Limito di Pioltello, sede principale dell’Esselunga, convinti di portare al giornale un’intervista a Bernardo Caprotti che non ne dava mai. 
Il posto è la tipica imitazione milanese dell’America produttiva: capannoni e rotonde, rotonde e capannoni, e in mezzo gente in macchina intenta ad andare al lavoro o a tornare dal lavoro. Arrivammo e fummo parcheggiati in una sala d’attesa tipo dentista dove spiccavano due quadri con il loro bravo cordoncino davanti, come in un museo. Non mi sembravano meritarlo e nel tentativo di studiarli meglio mi avvicinai troppo facendo scattare una sirena terrificante. Come dire: meglio non fidarsi troppo. Però è anche vero che non arrivò nessun vigilante. Evidentemente erano abituati agli allarmi a vuoto. 
In compenso comparve Caprotti, che all’epoca era già anziano ma sempre gagliardo, ed esauriti i convenevoli (pochi e sbrigativi) ci informò, primo, che i quadri erano dei Canaletto (e qui forse era troppo ottimista), secondo, che non c’era nessuna intervista ma solo una conversazione «off the record», insomma che non avremmo potuto scrivere una sola parola e, terzo, che ci invitava a colazione. Il tutto esibendo una copia del mio articolo tutta sottolineata con l’evidenziatore e spiegando che «i comunisti» gli volevano impedire di fare il suo mestiere, cosa peraltro verissima.
Seguì la famosa colazione. E qui capimmo che quello che avevamo davanti era un capitalista della vecchia scuola, un padrone delle ferriere senza indulgenze per nessuno, nemmeno sé stesso. Macché ristorante stellato, macché insalatina veloce e fighetta così-non-mi-appesantisco-che-devo-lavorare: andammo a pranzo in mensa, insieme con i dipendenti, con l’unico modesto lusso di una tavola a parte e del cameriere e mangiando solo prodotti Esselunga perché, come mise subito in chiaro, «io assaggio tutto quello che vendo». Scherzando, pure. «Le piace questo paté?». Sì, non male, grazie. «L’ha fatto mia moglie», ah ah ah.
La conversazione si aggirò intorno alle vicissitudini di «Falce e carrello», il suo libro denuncia sull’intreccio fra grande distribuzione e amministrazioni locali di sinistra, allora al centro di una complicata battaglia giudiziaria. Poi si passò ai suoi ricordi, lui di buona famiglia imprenditoriale lombarda spedito dal padre negli Stati Uniti più o meno all’epoca della presidenza Truman: doveva occuparsi di industria tessile, il business di famiglia, e invece scoprì che là esistevano degli strani grandi negozi chiamati «supermercati».
A sprazzi, emergeva qualcosa di più personale. Il giudizio su Berlusconi, per esempio, che lui conosceva bene e di cui disse «quello l’hanno rovinato le donne», sentenza magari sbrigativa ma non sbagliata. E, curiosamente, una gran simpatia per i greci e la Grecia, in teoria quanto di più lontano dalla sua etica del «laurà» e dalla sua estetica dell’understatement: ci raccontò che passava lì tutte le estati, in barca, e gli piaceva moltissimo.
Non una parola sulle risse giudiziarie con i figli, che pure avevano già cominciato a tracimare dai tribunali ai giornali. I suoi giudizi erano netti, espressi in un italiano impeccabile e per questo un po’ demodé. Analizzava le malefatte di governi, partiti e sindacati con la spassionata chiarezza di chi non se ne aspetta nulla di buono. Era duro ma lucido. E si capiva (ipotesi poi confermata parlando con chi lavorava con lui) che non chiedeva ai dipendenti niente che non avrebbe fatto lui.
Tornando, Calabresi mi raccomandò di scrivere un appunto sulla giornata, cosa che feci. Non ho più rivisto il cavalier Caprotti. Poco male: era di quelle persone che non si dimenticano. Magari era un uomo difficile. Ma certamente era un uomo. 

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Sara Bennewitz per la Repubblica
Un imprenditore spigoloso, colto, geniale, generoso e calvinista. Bernardo Caprotti ha dedicato la vita al lavoro, alla sua impresa e a fare di Esselunga un’eccellenza della grande distribuzione, studiata e imitata da rivali come l’americana Walmart, la spagnola Mercadona, la britannica Tesco e la belga Delhaize.
Cinquantacinque anni fa Caprotti comprò il 51% di Esselunga dalla famiglia Rockefeller per 5 milioni di dollari, e a fine agosto ha ricevuto offerte che valutavano il gruppo fino a 6 miliardi di euro. In questi anni il leader italiano dei supermercati è stato corteggiato da tutti i generi di compratori, ma arrivato al dunque, Caprotti aveva sempre declinato anche le offerte più generose, per quella che di sicuro è stata l’impresa della vita. Poi con l’avanzare dell’età e della malattia, già a fine 2015 l’imprenditore si era spinto a incontrare diversi private equity interessati al controllo del gruppo. E così a metà settembre aveva incaricato la banca d’affari americana Citigroup di valutare le manifestazioni d’interesse di colossi come Blackstone e Cvc, pur di garantire al gruppo una governance dopo di lui. Se infatti l’operatività di Esselunga non è a rischio, perché da 16 anni le deleghe sono in mano a Carlo Salza e a un team di persone scelte da Caprotti - che formalmente è in pensione dal 2013 - la proprietà e la governance future di Esselunga rischiano invece di finire al centro in una lunga faida familiare, come quella che l’imprenditore ha condotto contro i figli dal 2011 ad oggi, e che è tutt’ora in corso nonostante la pronuncia della Cassazione della scorsa primavera. Nel ‘96, arrivato a 70 anni, Caprotti aveva infatti distribuito ai tre figli le quote dell’azienda dando al primogenito Giuseppe il 36% della società che controllava Esselunga, a sua sorella Violetta il 32% e il 32% all’altra figlia Marina, avuta con la seconda moglie Giuliana Albera, lasciata invece fuori. Poi nel 2011 il fondatore di Esselunga , dopo un violento litigio con il figlio Giuseppe, si era riassegnato le quote e aveva estromesso tutti i figli dalla proprietà dei supermercati. A questo punto non è scontato che gli eredi del patron di Esselunga terranno conto della volontà dell’imprenditore, che di fatto aveva intrapreso un processo per vendere l’azienda. In proposito ieri l’ad Salza e il presidente Vincenzo Mariconda, nell’inviare una lettera a tutti i dipendenti, hanno ricordato che «fino all’ultimo, come sempre del resto, la sua preoccupazione più grande è stata rivolta alle donne e agli uomini di Esselunga, alle loro famiglie, al loro presente e al loro futuro».
Le ultime volontà dell’imprenditore sono depositate presso lo studio del notaio Carlo Marchetti, e solo all’apertura del testamento si saprà cosa ha disposto per il futuro del suo patrimonio che per lo più è concentrato sul gruppo da 7,3 miliardi di ricavi. Tuttavia, dato il livore che scorre tra i due rami della famiglia, non si può escludere una nuova ondata di cause e di impugnazioni testamentarie, che potrebbero bloccare ogni decisione straordinaria sul futuro del gruppo, e che di sicuro farebbero scappare ogni possibile compratore. La legge testamentaria, anche considerando la quota di legittima, prevede infatti che insieme Giuseppe e Violetta Caprotti debbano comunque ereditare quote di Esselugna tali da costituire una minoranza di blocco capace di opporsi a qualunque decisione di straordinaria amministrazione, come potrebbe essere la vendita del gruppo dei supermercati. I rapporti tra i figli del primo matrimonio Giuseppe e Violetta con la seconda moglie del padre Giuliana Albera e sua figlia Marina sono logorati da anni, anche se nelle ultime ore Violetta si sarebbe riunita al capezzale del padre. Resta da sperare che dopo che Bernardo Caprotti ha dedicato tutta la vita a costruire un’eccellenza italiana della grande distribuzione, i suoi eredi non permettano per motivi personali che quello che è anche un patrimonio collettivo e che dà lavoro a 22 mila persone venga distrutto dai risentimenti privati.