1 ottobre 2016
Deutsche Bank, l’elefante nella stanza
Francesco Ninfole per MilanoFinanza
Dopo le difficoltà di Deutsche Bank la Germania si è accorta in prima persona che le regole imposte all’Europa dal 2013 sui salvataggi bancari non soltanto non sono garanzia di stabilità, ma al contrario possono aggravare i timori degli investitori e la volatilità dei mercati. Finora la questione, che non riguarda solo Deutsche Bank, non ha toccato Berlino per alcuni motivi: i problemi delle banche tedesche sono stati nascosti sotto il tappeto grazie ad aiuti di Stato per 250 miliardi e a una vigilanza che ha guardato altrove (ai rischi di credito e sovrani); la recessione, assente in Germania, ha colpito le banche dei Paesi del Sud Europa, alle quali Berlino aveva convenienza a imporre un inflessibile burden sharing (perché non era disposta a salvare una banca di un altro Paese); infine i mercati hanno sempre dato per scontato che la Germania in caso di necessità avrebbe difeso le banche del Paese (in gran parte già pubbliche). Perciò il settore tedesco è stato a lungo al riparo delle turbolenze, nonostante i rischi dei bilanci.
Una parte dei problemi che oggi Angela Merkel sperimenta per la prima volta, altrove sono già stati vissuti. L’Italia ha capito da circa un anno cosa vuol dire il burden sharing: la risoluzione delle quattro banche e la conseguente svalutazione dei titoli subordinati (quelli più rischiosi) ha comportato per la prima volta perdite ai risparmiatori (un problema aggravato dai casi troppo frequenti di vendite fraudolente allo sportello); ha innescato timori su tutte le banche, anche quelle sane; ha spinto gli investitori e gli analisti a trasferire a tutti gli istituti del Paese valutazioni penalizzanti sulle sofferenze; ha causato fuoriuscite di depositi e pesanti perdite in borsa.
Tutto questo è stato innescato da banche che pesavano per l’1% del comparto italiano e una percentuale insignificante di quello europeo. Eppure da allora il settore e le autorità italiane, nell’impossibilità di usare backstop pubblici e persino privati (come gli interventi preventivi del Fitd), hanno dovuto di volta in volta mettere a punto nuovi strumenti (come Atlante e il fondo volontario), con l’unico scopo di evitare nuovi casi di risoluzione. Ma le contromisure inevitabilmente hanno potuto contare su risorse limitate e a volte non hanno dato la protezione necessaria per contrastare timori (anche ingiustificati) dei mercati.
La vicenda Deutsche Bank può essere ora un punto di svolta, per due ragioni: è una banca tedesca, e quindi potrà far emergere la doppia morale della Germania sui salvataggi bancari (vietati, ma soltanto fuori dai Lander); è la banca al mondo con i maggiori rischi sistemici, secondo il Fmi. Istituti di queste dimensioni sono di fatto too big to bail-in: il coinvolgimento dei privati innescherebbe conseguenze paragonabili (e forse superiori) a quelle di Lehman Brothers. Il vecchio problema del too big to fail, insomma, ha solo cambiato forma e tecnicalità, ma è rimasto immutato.
Perciò la maggior parte degli osservatori ritiene che, nell’eventualità (al momento lontana) di una crisi di Deutsche Bank, Merkel sarebbe obbligata a rinnegare tutte le normative imposte alla Ue: «La Germania salverà Deutsche Bank, è troppo importante per l’economia tedesca», ha rilevato il capo degli investimenti di Allianz Gi, Andreas Utermann. E c’è da aggiungere che probabilmente anche gli altri Paesi Ue non avrebbero nulla in contrario, e anzi spingerebbero per un salvataggio pubblico. La lezione del caso Deutsche Bank resterà valida indipendentemente dal suo esito. Che piaccia o no (e a nessuno piace), la presenza dello Stato è l’unica difesa di ultima istanza in crisi bancarie di dimensioni medio-grandi. Non è una preferenza, ma un dato di fatto. Le banche sono aziende diverse dalle altre, anche se finora lo si è negato sia a Berlino che a Bruxelles: hanno conseguenze per i risparmi dei cittadini e sono basate innanzitutto sulla fiducia. Peraltro la presenza dello Stato rende meno probabile l’utilizzo effettivo di risorse pubbliche: proprio Deutsche Bank è crollata in borsa quando si sono diffuse indiscrezioni (poi smentite) sull’opposizione della cancelliera Merkel a una protezione statale.
Il problema è particolarmente rilevante in questi anni di transizione al nuovo modello basato sul bail-in. Se una crisi fosse oggi pagata soltanto con titoli con esplicito rischio di bail-in (indicato con chiarezza nelle condizioni contrattuali in fase di collocamento), allora le conseguenze sistemiche sarebbero inferiori. Gli investitori sarebbero consapevoli dei rischi sin dall’acquisto del titolo. Forse in futuro sarà così. Per il momento, invece, i timori di perdite si diffondono in un’ampia platea di investitori. Accade perché l’Europa, su pressione tedesca, ha scelto un modello di bail-in ampio (broad bail-in) che interviene potenzialmente su tutte le passività di una banca (tranne i depositi sotto 100 mila euro), anche quelle emesse prima della nuova normativa. I casi recenti dicono che sarebbe stato opportuno muoversi con più cautela, con un lungo periodo transitorio, tale da consentire alle banche di cambiare la struttura del passivo ed emettere una quantità rilevante di titoli finalizzati al bail-in. Questa battaglia è stata combattuta dal governo e dalla Banca d’Italia, ma è stata persa in fase di negoziazione, soprattutto perché gli interessi del Paese più forte andavano in direzione opposta.
Ormai la normativa è in vigore e di conseguenza bisognerà convivere con strumenti pericolosi per la stabilità e che comunque non risolvono il too big to fail per le banche d’investimento molto grandi e interconnesse (un problema che la vigilanza Bce non ha affrontato, per esempio riducendo i rischi finanziari). Perciò il fantasma di Lehman Brothers è tornato a spaventare i mercati.
Ci sono molte diversità tra Lehman e Deutsche Bank. Innanzitutto non è detto che Deutsche sia obbligata al salvataggio: molto dipende dalla multa che sarà decisa dal dipartimento di giustizia Usa. Venerdì 30 si sono diffuse voci secondo cui la sanzione sarà di 5,4 miliardi di dollari, molto meno dei 14 miliardi di partenza: così il titolo ha guadagnato in una seduta il 6,4%, dopo essere sceso ai minimi storici nella stessa giornata sotto 10 euro. Il ceo John Cryan ha rimarcato in più occasioni la solidità della banca. Altri osservatori hanno evidenziato che Lehman era più esposta ai repo. Il contesto regolamentare è molto diverso: il governo Usa era libero di salvare la banca, anche se poi non l’ha fatto; quello tedesco avrebbe più vincoli (anche per le elezioni del prossimo anno), ma come detto potrebbe comunque essere obbligato a intervenire.
Tuttavia tutte le banche, non solo Deutsche e Lehman, hanno un punto in comune: vanno in difficoltà se si perde la fiducia nei loro bilanci. Per questa ragione alcuni fondi hanno già ridotto l’esposizione a Deutsche Bank. Oggi i titoli illiquidi (di livello 3) sono oltre il 50% del patrimonio netto tangibile della banca: peraltro anche altre banche francesi e tedesche sono su livelli simili. La vigilanza Bce ha fatto poco per ridurre questi asset e per controllare i rischi (anche legali) dell’attività speculativa delle banche. Il caso Deutsche Bank è soprattutto un avvertimento sull’Unione bancaria: molti errori sono stati commessi perché non si è seguita la soluzione migliore, ma quella più in linea con gli interessi della Germania.
Alessandro Merli per Il Sole 24 Ore
Una giornata di follia per il titolo Deutsche Bank in Borsa. Precipitate del 9% in mattinata fin sotto la soglia simbolica dei 10 euro, dopo che giovedì sera negli Stati Uniti era uscita la notizia che una decina di grandi hedge fund aveva spostato le proprie attività dalla più grande banca tedesca nel timore di una crisi, le azioni sono risalite improvvisamente nel pomeriggio quando è circolata l’indiscrezione, raccolta dall’agenzia Afp e non confermata, secondo cui sarebbe vicino un accordo per 5,4 miliardi di dollari sulla multa del Dipartimento di Giustizia Usa per le scorrettezze nella vendita di titoli cartolarizzati. La richiesta iniziale di 14 miliardi di dollari aveva nelle scorse settimane indebolito il titolo e sollevato l’ipotesi, sempre smentita da Deutsche Bank e dal Governo tedesco, di un aumento di capitale e un possibile intervento pubblico a sostegno della banca. Alla fine della seduta a Francoforte, le azioni hanno chiuso in rialzo del 6,4% a 11,57 euro. Alla Borsa di New York, il rimbalzo intra-seduta è arrivato al 13 percento.
Nel corso della giornata erano scese ai minimi anche le obbligazioni subordinate della banca, i cosiddetti «coco bond», mentre era salito il costo dell’assicurazione contro il default attraverso i Cds. Le violente oscillazioni sul titolo Deutsche Bank hanno trascinato con sé gli altri titoli bancari e le Borse europee.
La vicenda della multa da parte dell’amministrazione Usa è cruciale per una banca che nel luglio scorso è stata giudicata una delle più deboli in Europa negli stress test realizzati dalla European Banking Authority. L’importo inizialmente richiesto dalle autorità americane sarebbe andato ben al di là delle riserve accantonate dall’istituto di Francoforte per far fronte alle diverse vicende giudiziarie nelle quali è ancora coinvolto e l’avrebbe costretto a un aumento di capitale. La cifra circolata nel pomeriggio di ieri è comunque nella parte più alta delle forchetta considerata tollerabile dagli azionisti del settore senza che Deutsche Bank debba ricorrere nuovamente agli investitori. Al di là dell’euforia borsistica del pomeriggio di ieri, il problema non è del tutto risolto, in quanto oltre alla causa per gli Rmbs negli Usa, la banca resta coinvolta in diverse inchieste e scandali, fra cui uno in Russia.
Dopo il crollo della mattinata, l’amministratore delegato John Cryan aveva cercato di gettare acqua sul fuoco con un messaggio ai dipendenti, in cui sosteneva i «solidi fondamentali» della banca, la «percezione distorta» da parte del mercato e accusava la «speculazione», oltre a non meglio precisate «forze dei mercati che vogliono indebolire la fiducia in noi». Cryan aveva anche spiegato che nel primo semestre di quest’anno Deutsche Bank ha realizzato profitti per un miliardo di euro, che salgono a 1,7 miliardi se si escludono le poste straordinarie, come i costi di ristrutturazione. Aveva inoltre sottolineato l’abbondante liquidità, di 215 miliardi di euro, una circostanza riconosciuta anche dagli analisti del settore bancario per far fronte ad eventuali difficoltà. Sui mercati si ricorda peraltro che in caso di necessità Deutsche può avere accesso alla liquidità della Banca centrale europea. Infine, ha anche ricordato che la politica di dismissioni sta proseguendo: l’altro giorno è stata ceduta la compagnia d’assicurazione inglese Abbey Life e dovrebbe essere completata entro fine anno la vendita della quota nella banca cinese Hua Xia, un’operazione che peraltro molti sul mercato ritengono proceda con ritardo.
Nei giorni scorsi, Deutsche Bank aveva dovuto ripetutamente smentire, e lo aveva fatto anche il Governo tedesco, di aver richiesto e si stesse predisponendo un salvataggio pubblico. Resta il fatto che, al di là degli scossoni di ieri, i mercati continuano ad avere la percezione di una banca alle prese non solo con la soluzione degli scandali, ma con la definizione di una strategia efficace per recuperare redditività e un capitale troppo vicino al limite minimo dei requisiti imposti dalle autorità di vigilanza.
Alessandro Merli per Il Sole 24 Ore
Nell’atrio della torre della Commerzbank a Francoforte, è stato installato nel marzo scorso un enorme dinosauro. L’iniziativa è nata per un progetto legato al restauro del museo di storia naturale Senckenberg, ma a qualcuno l’accostamento di un animale estinto con una banca che non se la passa troppo bene non è sembrato del tutto appropriato. Ma lo scenario di una crisi bancaria in Germania, innescata stavolta da Deutsche Bank, preoccupa non solo per le sue conseguenze sulle istituzioni finanziarie, ma quasi altrettanto per quelle politiche, e la più preoccupata di tutti è il cancelliere Angela Merkel.
Per assicurarsi la sopravvivenza dopo la grande crisi finanziaria globale del 2008, un evento paragonabile per la finanza ai cataclismi che portano alla scomparsa dei dinosauri, Commerzbank dovette ricorrere non a uno, ma a due salvataggi con denaro pubblico, prontamente assicurato dal secondo Governo Merkel. E la Germania è stata in quella fase il Paese più prodigo di soldi dei contribuenti a favore delle proprie banche, con l’iniezione di una cifra, attorno ai 240 miliardi di euro, più alta anche di Paesi investiti direttamente dalla crisi come la Spagna.
Anche per questo, quando nelle scorse settimane si sono acutizzate le difficoltà di Deutsche Bank, la più grande banca tedesca, hanno cominciato a rincorrersi voci di un intervento pubblico. Smentite dalla banca stessa e dal Governo a più riprese. La causa occasionale dei problemi di Deutsche Bank è la richiesta iniziale delle autorità americane per scorrettezze nel collocamento di titoli, una richiesta di 14 miliardi di dollari, che avrebbe spazzato via le riserve accantonate a questo scopo a Francoforte. Anche nella dimensione transatlantica della vicenda c’è un aspetto politico, con le presidenziali Usa in arrivo e il coinvolgimento di altre banche europee negli stessi misfatti. Se, come pare, la cifra verrà ridimensionata, i problemi di fondo della banca, di costi, di redditività, di capitale ai limiti della sufficienza per far fronte a stress severi, resterebbero comunque.
Da qui a dire che Deutsche avrà bisogno di un aiuto pubblico, la strada è ancora molto lunga. Il Governo ha cercato di tenere in questa vicenda il profilo più basso possibile. Se nel febbraio scorso, in occasione di analoghe turbolenze, era intervenuto vigorosamente in difesa della banca il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, stavolta la signora Merkel si è limitato a osservare anodinamente che si augura che, come tutte le imprese tedesche, Deutsche Bank vada bene, e il ministero delle Finanze ha smentito con un comunicato il coinvolgimento in un piano di salvataggio. La campagna elettorale per il voto dell’autunno 2017, che potrebbe portare la signora Merkel a un quarto mandato, è già iniziata, anche se lei non ha ancora confermato la sua ricandidatura, e ogni avvicinamento alle banche, che sono tra le istituzioni più impopolari, è considerato politicamente tossico. In un sondaggio condotto ieri quasi il 70% degli interpellati si è dichiarato contrario a eventuali aiuti pubblici alla Deutsche Bank. Il cancelliere è fermamente intenzionato, per quanto possibile, a seguire le vicende della banca senza apparire. Anche perché l’opposizione a qualsiasi iniziativa con soldi pubblici è molto ferma anche dall’interno del suo stesso partito e scatenerebbe i populisti di Alternativa per la Germania, AfD, che già stanno conquistando terreno grazie al tema dell’immigrazione.
A Berlino contano che ogni soluzione passi dal settore privato, attraverso il piano di ristrutturazione e le dismissioni dell’amministratore delegato John Cryan e attraverso eventuali infusioni di capitale di investitori che possono anche essere fondi sovrani, come è già il caso del Qatar. Nessuno dubita però che se l’emergenza dovesse diventare estrema, Deutsche Bank sia «troppo grande per fallire» e il Governo non potrebbe restare a guardare. La scelta fra convenienza elettorale e stabilità economica e finanziaria sarebbe obbligata a favore della seconda. Ma potrebbe addirittura costare alla signora Merkel la riconferma.
C’è poi da considerare che dalla crisi scoppiata nel 2008 il mondo delle regole bancarie è cambiato e in Europa lo ha fatto soprattutto dietro la spinta della Germania. In questo nuovo mondo, il denaro del contribuente va salvaguardato e vanno penalizzati invece gli investitori in azioni, obbligazioni e, se occorre, persino i grandi depositanti delle banche. Ancora questa settimana, il consigliere della Bundesbank, Andreas Dombret, ha sottolineato che «l’appoggio politico alle banche deve finire». In Europa, i tedeschi sono stati rigorosissimi nell’imporre agli altri, Italia in primis, il rispetto delle nuove regole. Una deroga a questi principi (anche se le regole stesse lo prevedono, come spiega l’articolo sotto) sarebbe un colpo durissimo alla credibilità della Germania come paladino della disciplina. Anche se la Germania ha le risorse proprie, a differenza di Paesi come Spagna e Irlanda, e anche Italia, per far fronte alle difficoltà del proprio sistema bancario, risulterebbe difficile per i campioni del bail-in procedere come se nulla fosse all’ennesimo bail-out.
Del resto, sarebbe problematico anche per gli interlocutori della Germania limitarsi a osservare con Schadenfreude, con compiacimento e senso di rivalsa, le disgrazie altrui. Come ha ricordato nella sua analisi del sistema finanziario tedesco nei mesi scorsi il Fondo monetario internazionale, Deutsche Bank è la banca che presenta il più alto rischio sistemico per le connessioni globali delle sue attività. Il danno inferto dal collasso di Lehman Brothers al sistema verrebbe moltiplicato all’ennesima potenza. Ma, si ripete a Berlino come a Francoforte in queste ore, Deutsche Bank non è, e non sarà, un’altra Lehman.