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 2016  settembre 29 Giovedì calendario

In morte di Shimon Peres

Antonio Ferrari per il Corriere della Sera
È uno dei grandi uomini, certamente l’ultimo sopravvissuto fino a poche ore fa, che hanno fatto davvero la storia di Israele. I nostri pensieri, in questo momento, sono assai tristi e malinconici perché a noi giornalisti Shimon Peres è sempre piaciuto. Sapeva infatti rispondere a tutte le domande con l’aria distaccata di chi conosce bene le insidie della politica e della vita. Ai suoi connazionali, innamorati di ruvidi uomini in armi, piaceva molto meno. Shimon era troppo intellettuale e sofisticato per riassumere le doti e le asprezze di un popolo di frontiera. Era troppo diplomatico per rispondere alle pulsioni di pionieri sanguigni. Quando gli chiedevi se, in politica, gli piacesse qualche necessaria dose di realismo, rispondeva con una delle sue metafore: «It is very nice to smell, but very hard to swallow», cioè magari piacevole da odorare, ma assai difficile da inghiottire.
Peres è stato uno dei costruttori dello Stato ebraico, con i suoi pregi e le sue capacità, ma anche con i suoi difetti di scaltro Giano bifronte. Era diventato l’uomo del dialogo con gli arabi, ma insieme era anche il custode dell’arsenale nucleare «segreto» di Israele. Un «segreto» di Pulcinella, perché lo conoscevano in tanti e lo sospettavano tutti. Ben Gurion, che del Paese fu lo storico fondatore e insieme la vera anima, descriveva Peres come «circondato dall’aureola del potere». Complimento lusinghiero, anche se bisogna ricordare che in realtà il predestinato con l’aureola non ha mai vinto un’elezione politica. È stato primo ministro, magari in governi di coalizione o per cause di forza maggiore. È diventato presidente di Israele soltanto nella terza età avanzata, quando la scelta era quasi obbligata.
Peres ha accompagnato, da protagonista nobile tutta la storia dello Stato ebraico. Ai vertici internazionali era la star ricercata da tutti, perché sapeva sempre scegliere l’approccio giusto e il comportamento di un convinto sostenitore del dialogo. Nei suoi libri ha sempre sostenuto l’idea di una confederazione tra Israele, Palestina e Giordania, come pilastro di pace e prosperità. Di molti leader arabi è stato un amico prezioso. Il presidente dell’Egitto lo ha sempre accolto con rispetto, stima e altissima considerazione; il re di Giordania (prima Hussein, poi suo figlio Abdullah II) lo ha sempre scelto come interlocutore privilegiato. Di Yasser Arafat era amico e partner di pace, pur se lo descriveva, a volte, come un fritto misto di imbecillità e saggezza. Se c’era il suo premier da contenere, ecco che Peres era pronto a smussare gli spigoli caratteriali del capo del governo israeliano (soprattutto Yitzhak Shamir) con la suadente logica della sua colta preparazione. Una volta, in visita a Roma, lo interrogai sull’Irangate, cioè sui traffici arditi compiuti da Washington e la Teheran degli ayatollah con l’aiuto di Israele. Rispose senza scomporsi: «Siamo stati avvicinati e abbiamo collaborato». Chi aveva avvicinato Gerusalemme erano stati gli americani: circostanza ritenuta allora assai imbarazzante.
Più di una volta, Peres era stato a un passo dalla vittoria elettorale, ma all’ultimo momento era stato costretto ad accettare la sconfitta. Quando il primo ministro Yitzhak Rabin, nel 1977, si dimise perché sua moglie aveva dimenticato di denunciare al Fisco degli Usa 7 mila dollari mentre il marito era ambasciatore a Washington, vi furono elezioni anticipate. Peres, che pensava di vincerle, fu sconfitto dal conservatore triste Menachem Begin, il leader che poi firmò la pace con l’Egitto di Anwar Sadat. Ancor peggio andò nel 1996, pochi mesi dopo l’assassinio di Rabin, ammazzato dall’estremista ebreo Yigal Amir. Peres era assolutamente certo di essere eletto, ma l’arroganza di voler dimostrare che mai avrebbe utilizzato l’immagine di Rabin, gli fu fatale. Vinse infatti, per la prima volta, Benjamin Netanyahu.
Peres era un giocatore di scacchi, ma sapeva sempre difendere il suo ruolo privilegiato. Quando Rabin, nel 1993, dopo la sua elezione dell’anno precedente, avviò le clamorose trattative di pace con l’Olp di Arafat nella lontana città nordica di Oslo, il suo ministro degli Esteri, appunto Shimon Peres, ne fu entusiasticamente coinvolto. Il negoziato, in gran segreto, venne avviato, e dopo lo storico incontro fra Arafat e Rabin, nel Giardino delle Rose della Casa Bianca, i due protagonisti dello storico accordo vennero candidati al Nobel per la pace. Peres, con l’aiuto e le pressioni dell’Internazionale socialista, e in particolare dell’allora presidente francese François Mitterrand, riuscì nel miracolo. I due insigniti del Nobel diventarono tre vincitori, con l’aggiunta appunto dell’ambizioso ed eterno numero due israeliano.
Non so contare quante volte ho incontrato e intervistato il leader laburista che ci ha lasciato. Noi giornalisti lo inseguivamo sempre: primo perché era spesso in grado di riferirci, con la sua ironica flemma, qualche notizia importante; secondo, perché sapeva sempre condirla con una battuta felice. Per esempio quando gli chiesi, a Davos, assieme alla cara collega Mary Calvin (poi uccisa in Siria) se il suo premier, il duro Ariel Sharon, sarebbe diventato più dialogante, rispose: «È una vecchia tigre. E anche le vecchie tigri hanno i denti più deboli, e a volte li perdono».
Tra i documenti dello Stato greco sulla Seconda guerra mondiale, desecretati e pubblicati alcuni anni fa, c’era un capitolo su suo padre. Che si chiamava Yitzhak Perski. La famiglia Perski (cognome originale di Peres) fuggì dalla Polonia in Palestina all’inizio degli anni 30 e nel ’34 il padre di Shimon accettò di collaborare con l’esercito inglese. Fu paracadutato nel Nord della Grecia. Catturato dai nazisti, riuscì a scappare e fu aiutato da alcuni pope ortodossi che lo nascosero in un monastero. La resistenza greca lo aiutò poi a imbarcarsi su un caicco diretto in Turchia, dove l’uomo giunse incolume, per poi fuggire a cavallo e raggiungere le linee del generale Patton. Peres mi ringraziò soddisfatto delle preziose fotocopie che gli avevo portato. Pochi anni dopo, finalmente, realizzò il suo sogno. Vincere un’elezione, almeno alla Knesset (il Parlamento israeliano) e diventare presidente di Israele. Da capo dello Stato venne a Roma, ospite di papa Francesco, assieme al presidente palestinese Abu Mazen per testimoniare l’incrollabile fede nella pace tra israeliani e palestinesi. Un grande politico, Shimon Peres? Non saprei rispondere. Di sicuro so che è stato un grande uomo di Stato. Ci mancherà.

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Lea Luzzatti per La Stampa
Aveva una voce calda, dal timbro profondo e rassicurante. Una voce indimenticabile, come le parole che sapeva pronunciare nelle circostanze più varie e disparate e che erano immancabilmente spunto per una riflessione, l’apertura di una nuova prospettiva in chi lo ascoltava. Era accaduto l’ultima volta in quella piazza Rabin di Tel Aviv dove, qualche mese fa si era ricordato il suo compagno di parabola politica, assassinato vent’anni fa. La sera del 14 novembre scorso il palazzo del municipio di Tel Aviv portava i colori della bandiera francese, e Shimon Peres era arrivato al microfono con passo lento ma fermo per esprimere non solo solidarietà ma anche la fiducia, la convinzione inflessibile che il terrorismo non l’avrà vinta sulla civiltà dei diritti, della libertà umana, del rispetto.
Con lui se ne va da questo mondo ma non certo dai nostri ideali, dai ricordi e dalla nostalgia, l’ultimo grande uomo di Israele, l’ultimo di coloro che avevano «costruito il Paese per esserne costruiti», come dice il versetto biblico del profeta Geremia accolto a simbolo di un sionismo fatto tanto di ideali quanto di opere.
Shimon Peres era nato il 2 agosto del 1923 come Szymon Perskia, a Wiszniew, un piccolo paese della Bielorussia che allora era entro i confini della Polonia; era cresciuto parlando ebraico, yiddish, russo e polacco. Era cugino primo dell’attrice Lauren Bacall (nata Eetty Joan Persky). Il padre faceva il commerciante di legnami, la madre era bibliotecaria. Shimon aveva undici anni quando insieme a quest’ultima e al fratello minore raggiunse il padre che nel 1931 era emigrato nella Palestina allora sotto il governo mandatario britannico. In tempo per sfuggire all’orrore nazista, la famiglia si era stabilita a Tel Aviv.
Come quasi tutti i grandi d’Israele, anche Peres si formò politicamente e culturalmente nel kibbutz, che allora era non solo l’invenzione più vicina che si possa immaginare al socialismo reale, ma anche il luogo dove circolavano le idee e dove si è avviata la costruzione politica dello Stato ebraico. Nel 1946 Peres arrivò al Congresso Sionista come delegato del movimento giovanile laburista, e conobbe Ben Gurion.
Così cominciò la straordinaria carriera politica di quest’uomo, dentro il quale si è sempre celato – ma neanche troppo, bastava ascoltarlo un minuto o due per vedere affiorare la sua natura più intrinseca – un autentico intellettuale, un uomo di idee, di letteratura, dalla inesausta passione per la cultura intesa come privilegio e mira ultima della natura umana in generale e dell’ebraismo nello specifico.
Questa passione più o meno dichiarata non gli ha impedito una parabola politica dalla instancabile continuità. Se Ben Gurion è stato il suo mentore, colui che l’ha portato alla politica, Yizthak Rabin, è stato sin dagli inizi il collega di Partito e non di rado l’avversario sull’arena del consenso, con cui peraltro ha condiviso e costruito la storia del Paese per tanti e tanti anni; a cominciare dal 1974, quando Rabin divenne premier al posto di Golda Meir e Peres il suo ministro della Difesa. Primo ministro lo sarebbe diventato solo in seguito (1984-1986 e 1995-1996) ma sempre in modo travagliato, come se in questo ruolo incarnasse tutte le contraddizioni e la complessità del Paese.
Peres è stato anche tanto altro: ministro della Difesa, degli Esteri, delle Finanze, ma non solo. Ha guidato il Partito Laburista in diverse occasioni. Ha preso delle decisioni non di rado difficili e contrastate, come quando nel novembre del 2005 lasciò il partito laburista per appoggiare il nuovo Kadima di Ariel Sharon. Nel 1996 fondò un centro per la Pace che porta il suo nome, per promuovere la cooperazione socio economica come via verso la convivenza e il rifiuto del pregiudizio.
In compenso, dal 2007 è stato un grandissimo Presidente del paese, e dall’1 gennaio del 2013 sino al 24 luglio 2014, quando il suo mandato è scaduto, è stato il capo di Stato più anziano del mondo, lasciando al suo successore Reuven Rivlin la difficile ma stimolante eredità di una Presidenza che si faccia quasi quotidianamente richiamo ai valori etici e umani, capace tanto di prendere posizione di fronte e in contrapposizione ai governi, ma soprattutto di guardare al paese con lucidità profonda. Di conoscerlo con amore e sapienza.
Ma al di là di una carriera politica tanto lunga quanto variegata per cariche e vicissitudini, Shimon Peres sarà ricordato soprattutto per quella storica stretta di mano che gli valse nel 1994 il premio Nobel per la Pace insieme a Yitzhak Rabin e Yasser Arafat. Certo, quello fu un gesto, una cerimonia, un atto politico che non ha ancora dato i frutti sperati. Fu soprattutto, però, il frutto della straordinaria capacità di quei due uomini destinati a vivere insieme la loro carriera politica e anche a morire per i propri ideali, di confrontarsi con la storia e costruirla passo dopo passo. Sia Rabin sia Peres sono stati visti prima come «falchi» e poi come «colombe». Ma queste sono etichette che non rendono giustizia alla complessità tanto delle loro figure quanto delle sfide che hanno dovuto e saputo affrontare.
Shimon Peres non era particolarmente generoso di sorrisi. Ma quando ne sfoderava uno era caldo e profondo come la sua cultura sterminata, come il suo modo di essere a un tempo uomo di mondo – parlava perfettamente anche inglese, francese, ma nel Reichstag tedesco aveva scelto l’ebraico, quella lingua doveva risuonare fra quelle mura, dalla sua voce – e altrettanto profondamente ebreo, israeliano. E aveva in sé una rara eleganza, tanto nei modi quanto nel parlare, che mancherà non soltanto a Israele e all’ebraismo contemporaneo, ma a tutti coloro che ancora credono nella bellezza della civiltà.

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Bernardo Valli per la Repubblica
In una società dove la classe dirigente ha una forte impronta militare, Shimon Peres era un personaggio politico insolito: figurava come un intellettuale. Non si dedicava soltanto alla politica, amava la letteratura. Ne parlava volentieri. E si vedeva che nel prendere le decisioni non aveva lo slancio del soldato, ma era trattenuto il tempo necessario per superare il dubbio dell’intelligenza. Aveva un’insolita delicatezza nella società dominata dai sabra. Questo non gli impediva di essere abile nelle manovre di partito e di governo, nei compromessi che non inquinavano la sua linea di condotta, ma che a volte lo facevano apparire, lui tenace nella ricerca della pace, erroneamente un falco. Subì frequenti sconfitte ma non perse mai il rango di grande personaggio di Israele. Non poteva esibire un passato di alto ufficiale nell’Haganah, o nelle successive edizioni dell’esercito israeliano, come Dayan, Rabin, Barak, Sharon e altri. Mancava quindi nella sua biografia quel titolo che equivale a una garanzia, in una società ancorata dalla storia tragica al dogma della sicurezza armata. Eppure Shimon Peres ha contribuito in modo determinante a quest’ultima. Ha infatti negoziato l’acquisto di armi essenziali alla difesa del suo Paese, e ha ottenuto in particolare dalla Francia, allora stretta alleata dello Stato ebraico, i piani per la costruzione del reattore nucleare di Dimona. Vale a dire la bomba atomica che Israele non ha mai detto di avere ma non ha mai neppure negato seriamente di avere. Questo accadeva nel mezzo degli anni Cinquanta: quando lo Stato ebraico partecipò con la Francia e l’Inghilterra alla spedizione di Suez dopo che l’egiziano Nasser aveva nazionalizzato il canale. Il giovane Peres, allora poco più che trentenne, partecipò anche alle trattative per quell’operazione militare rivelatasi un disastro. Poiché ubbidendo al fermo intervento politico americano, inglesi, francesi e israeliani dovettero ritirarsi dal territorio egiziano. E così Nasser vinse la battaglia perduta.
Fin da giovane funzionario del ministero della Difesa, nominato da Ben Gurion, il fondatore di Israele, del quale era un discepolo, Shimon Peres è poi stato due volte primo ministro e due volte primo ministro ad interim e membro di 12 governi in 66 anni di attività pubblica.
Come nono presidente della Repubblica (dal 2007 al 2014) è stato popolarissimo, circondato dal rispetto e dalla stima di sempre, ma anche da un affetto intenso che raramente aveva suscitato nei decenni precedenti. Pur avendo partecipato più volte al potere non ha mai vinto un’elezione come capo del partito di sinistra o di centro di cui aveva la guida. La larga, intensa adesione da lui ottenuta alla fine suonava come un riconoscimento della sua politica aperta e tormentata. Senz’altro saggia, spesso lungimirante, ma non sempre giudicata realizzabile dalla società in preda ai ricordi e immersa nel Medio Oriente instabile.
Da quando è stata ammessa l’idea dei due Stati, Shimon Peres ha sempre sostenuto la necessità di creare una Palestina indipendente accanto a Israele. E ha anche auspicato l’integrazione di Israele nel Medio Oriente. Come primo ministro e ministro degli Esteri ha cercato di attuarla. Ha agito in quel senso con uno slancio e un ottimismo non privi di audacia, e in apparenza contrastanti con la pacatezza e il relativismo dell’intellettuale. Un atteggiamento frenato dai timori e dalle angosce dell’opinione pubblica dominante. Sotto questo aspetto era un’anima nobile e coraggiosa nella burrascosa esistenza dello Stato ebraico.
Nei lunghi anni in cui ho seguito la vita israeliana, e mi è capitato a volte di incontrarlo, l’ho spesso ammirato per quella sua singolarità. L’intelligenza politica e la cultura guidavano il suo comportamento di fondo, al di là delle peripezie e dei compromessi.
Se in Yitzhak Rabin colpiva il carattere brusco, oscillante tra lo schietto e il cordiale, con una venatura sentimentale nello sguardo, in Shimon Peres i toni pacati coincidevano con l’espressione. La passione del generale Rabin era quella dell’intellettuale Peres. E le loro idee erano simili, praticamente le stesse. Ma il diverso carattere e la lotta politica all’interno del Labour li hanno messi spesso a confronto.
L’intellettuale sapeva infiammarsi quando gli venivano rammentate azioni che contrastavano con le idee enunciate. Reagì un giorno con collera a chi lo interrogava sui primi insediamenti israeliani che lui aveva autorizzato all’inizio dei Settanta in Cisgiordania, o sulle operazioni di rappresaglia che aveva ordinato contro i palestinesi accusati di azioni terroristiche. Il conflitto weberiano tra l’etica della responsabilità e l’etica dei principi doveva turbarlo.
L’ uomo di partito non si asteneva dalle manovre imposte da una società politica agitata da aspre polemiche e contorte manovre, non certo ignote a noi italiani. Ha militato in varie formazioni affini, di centro e di sinistra (Labour, Mapai, Rafi, Alignement, Kadima) impegnandosi in una lotta per il potere che l’ha messo appunto a confronto con concorrenti di cui condivideva le idee e con i quali avrebbe poi condiviso anche gli onori. Fu in competizione con Rabin, che convinse a contribuire agli “accordi di Oslo” tra Israele e l’Olp. E per i quali ricevettero poi entrambi, e con Arafat, il premio Nobel. Il destino li separò nel novembre 1995 quando Rabin fu assassinato e Peres, che per puro caso non era al suo fianco, sfuggì ai proiettili di Yigal Amir, un israeliano contrario al processo di pace.
La famiglia di Szymon Perski è emigrata verso Tel Aviv nel 1934, quando Shimon aveva undici anni. Veniva da Wisniew (all’epoca città polacca e oggi bielorussa con il nome di Visneva). Shimon, preso il cognome israeliano di Peres, frequenta la scuola di Guela a Tel Aviv, poi quella d’agricoltura di Ben Shemen. In occasione di una lunga missione negli Stati Uniti, per ordine di Ben Gurion, segue alcuni corsi a Harvard.
Dopo la guerra di indipendenza, viene nominato direttore generale del ministero della Difesa. Ed è cosi che l’intellettuale senza gradi militari prestigiosi contribuisce alla sicurezza di Israele, allora governata dalla sinistra sionista, che diventa una potenza atomica.

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Ugo Tramballi per Il Sole 24 Ore
Voleva garantire la pace alla sua gente per completare la costruzione di una nazione prospera e sicura. Non ci è riuscito: Israele rimane una costruzione incompiuta. Chi è stato il padre della patria israeliana, l’autore di un eroico riscatto nazionale, il responsabile di un vulnus mediorientale senza fine? E questo prima che arrivassero le guerre civili arabe e l’Isis a cambiare la priorità delle minacce e le cause dell’instabilità regionale. David Ben Gurion o Shimon Peres? Chi ha costruito uno dei Paesi più avanzati che esistano e contemporaneamente l’unica democrazia che da mezzo secolo occupa la terra di altri?
Ben Gurion fece lo Stato prima ancora che la nazione nascesse: nel 1948, quando ne fu proclamata l’indipendenza, Israele aveva già fisco, imprese, banche, sindacati, scuole e polizia. Fu lui a capire che l’impero britannico era finito e che bisognava ottenere la benevolenza del suo successore: gli Stati Uniti. Ma se nominate una qualsiasi delle realizzazioni esaltanti e negative di quasi 70 anni di storia, troverete il nome di Shimon Peres. Sempre.
Di questo, della sua erudizione monumentale e di un’intelligenza sopra la media, è sempre stato molto consapevole. I compagni di partito, gli avversari e gli elettori trovavano insopportabili le sue qualità. Non era arroganza, piuttosto civetteria. Era molto facile intervistarlo perché Peres aveva un’attrazione insopprimibile per i microfoni. Era comprensibile, perché il ministro e il premier di 12 governi ha armato il primo debole esercito israeliano e ne ha architettata la rivoluzione dalla quale sono nate le forze armate più tecnologiche che esistano; ha dato al Paese l’arma nucleare; è uno dei massimi responsabili dell’inizio e del moltiplicarsi delle colonie; per vent’anni è stato contrario a ogni contatto con i palestinesi. Peres è il politico che ha trasformato una nazione d’immigrati, sopravvissuti, agricoltori e guerrieri in qualcosa di molto più articolato. È il padre di un’economia sempre più hi-tech che anche quest’anno raggiungerà il 4% di crescita, la più alta d’Occidente: geograficamente Israele sarebbe in Medio Oriente e questa dicotomia fra due realtà così stridenti – sentirsi occidentali contro l’evidenza della geopolitica - è una buona sintesi del problema d’Israele. Per quello che sono diventati, gli israeliani di oggi hanno più i tratti di Shimon Peres che di Ben Gurion. Anche riguardo alla pace. Peres è stato il primo uomo di potere israeliano a capire la necessità di un accordo con i palestinesi. Certo, il primo trattato di pace – con l’Egitto - lo firmò Begin della destra nazionalista, anche se il merito fu più di Anwar Sadat, Moshe Dayan e Jimmy Carter che suo. Ma un compromesso fra Stati divisi da frontiere, era enormemente più facile di una pace con i palestinesi: un popolo fisicamente sovrapposto a quello israeliano, che rivendicava la stessa terra.
Già negli anni 80 Peres ci provò. E segretamente all’inizio dei 90 avviò una trattativa a Oslo con l’aiuto di un Paese insospettabile come la Norvegia. Dopo aver mandato avanti il suo giovane braccio destro Yossi Beilin per verificare la consistenza di quell’opportunità, Peres, allora ministro degli Esteri, si mise alla guida della trattativa. Fu uno dei segreti meglio tenuti della storia. Durante i negoziati il nome in codice di Peres era “Blazer”, forse per la sua eleganza inusuale alla tradizione israeliana: non ne sapevano niente il premier Yitzhak Rabin né i militari, gli americani furono informati a cose fatte. Gli accordi di Oslo sono finiti male. Ma restano agli atti e alla futura memoria di questa epica tragedia fra israeliani e palestinesi che un giorno avrà una soluzione. Il politico che crede alla pace fin dai suoi primi passi di carriera pubblica, è un visionario. Quello che vi arriva da convinzioni opposte, è un coraggioso. A metà della sua lunga carriera, Peres comprese che un esercito formidabile, le bombe atomiche, il benessere di un’economia smagliante e le startup erano un’opera incompiuta senza la fine del conflitto: un grande ghetto iper-armato e post-moderno, ma sempre un ghetto.
Quale eredità lascia Peres ai suoi connazionali? Al momento è un’opportunità messa in archivio: agli atti come Oslo. Bibi Netanyahu e la maggioranza relativa degli israeliani che lo votano ininterrottamente da quattro elezioni, sono convinti che Israele possa continuare a vivere per sempre, fino a che non saranno gli altri a cambiare, dentro una fortezza inespugnabile, a godere la modernità e il benessere garantiti da Peres. L’anno prossimo saranno 50 anni dalla Guerra dei Sei giorni e dall’occupazione dei territori; nel 2018 il Paese celebrerà 70 anni di vita. Israele continua a non avere frontiere definite e Gerusalemme non è ancora riconosciuta come sua capitale: solo la nascita di uno Stato palestinese darà tutto questo. Shimon Peres lo sapeva, ma il sogno che ha tentato di concludere resta incompiuto.

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Eric Salerno per Il Messaggero
Se n’è andato l’ultimo dei grandi vecchi d’Israele. Uno dei padri dello stato nato nel 1948; uno dei maggiori protagonisti politici e militari della sua storia tormentata. Una personalità complessa, amata nel mondo come espressione di ciò che il mondo sperava che Israele potesse essere ma curiosamente osteggiato dalla maggioranza dei suoi compatrioti. Non è stato mai eletto primo ministro anche se quell’incarico l’ha ricoperto più volte ed è stato presidente d’Israele grazie a un compromesso bipartisan del parlamento. Shimon Peres nacque il 2 agosto 1923 a Visneva, in Bielorussia, cittadina che all’epoca faceva parte della Polonia. Nove anni più tardi (cinque anni prima dell’occupazione nazista della sua patria) approdò in Palestina, a Tel Aviv, con la sua famiglia.
La comunità ebraica della Palestina era piccola, allora, e il giovane Peres fu già da teenager molto attivo. Prima nel movimento dei kibbutz, le fattorie collettive di stampo socialista, essenza stessa dello spirito pionieristico di quegli anni; poi nel movimento sionista dove conobbe due futuri premier Levi Eshkol e David Ben Gurion diventando suo protetto. Erano gli anni della lotta armata e nel 1947 fu arruolato nell’Haganah (il futuro esercito) come responsabile del personale e dell’acquisizione delle armi indispensabili per fronteggiare gli eserciti arabi più numerosi ma, alla fine, meno equipaggiati e addestrati.Anche se il suo ruolo era di fondamentale importanza (come quello successivo di direttore generale del ministero della Difesa) il fatto che non avesse mai indossato la divisa di una unità combattente fu per lui, negli anni a venire, un handicap. Gli uomini con le stellette, o i terroristi come Begin e Shamir, erano i soli veri eroi del nuovo stato.
MERITI NON RICONOSCIUTI
Pochi dei suoi compatrioti, specialmente le nuove generazioni, gli sono riconoscenti. Molti, probabilmente, non sanno nemmeno che fu grazie a lui che Israele ebbe dalla Francia il caccia Dassault Mirage III, un aereo militare a reazione con cui consolidare la supremazia nei cieli. E non si rendono conto che fu proprio lui, civile e non militare, alla fine degli anni 50 ad ottenere sempre da Parigi il reattore indispensabile per trasformare il giovane stato nell’unica potenza nucleare del Medio Oriente.
Israele e la sua politica fino ai primi anni Ottanta era dominata dagli ebrei askenaziti (di origine europea centro-orientale) e Peres entrò presto nell’arena. Nel 1959 fu eletto alla knesset nelle liste del partito Mapai, una delle formazioni che sarebbero confluite nel partito Laburista. Nel 1969 era già ministro.
Quanto nel 1974 Golda Meir, la donna di ferro della politica israeliana, fu costretta alle dimissioni dopo la guerra del Kippur, Peres cercò di conquistare la leadership del partito. Fu il primo di una lunga serie di scontri perdenti con Itzhak Rabin, generale a riposo tra i più decorati d’Israele. Peres, in origine un falco, era portato alla politica anche se il suo linguaggio, a giudicare dai risultati, non arrivava al cuore degli israeliani a differenza di quanto veniva fuori dal pragmatismo di Rabin più militare e statista che politico. Erano gli anni in cui Israele viveva l’inizio della colonizzazione dei territori palestinesi occupati dopo la guerra dei Sei giorni (1967) e fu Peres a convincere Rabin a non opporsi agli estremisti nazional-religiosi che impiantarono i primi insediamenti. «Ci serviranno come merce di scambio», disse al compagno di partito piuttosto perplesso.
Pochi anni dopo, con risultati a sorpresa, il partito laburista fu costretto all’opposizione dalla vittoria di chi – prima Begin e poi Shamir – aveva puntato sugli israeliani originari dei paesi arabi, trascurati e trattati da sempre come cittadini di seconda classe. Rabin riusciva, talvolta, ad avvicinarsi a loro grazie al suo passato di militare; Peres era per loro la bandiera di una classe politica che considerava Israele frutto esclusivo del sionismo europeo. Tornarono al governo, i due contendenti, dopo la prima Intifada e insieme produssero gli accordi di Oslo che valsero loro e il leader palestinese Yasser Arafat, il Premio Nobel per la Pace. Una pace appena abbozzata e che oggi sembra sempre più distante.
BOCCIATO ALLE URNE
La morte di Rabin, assassinato da un estremista ebreo vicino ai coloni, lasciò Peres alla guida d’Israele ma invece di approfittare del mandato ereditato preferì andare a elezioni anticipate. Cercava una vittoria personale alle urne. Non l’ebbe. Fu sconfitto dalle destre guidate da Benjamin Netanyahu. Nello sforzo di offrire di se stesso un’immagine forte aveva scatenato una guerra contro il Libano alienando con la sua imprudenza gli arabi israeliani tradizionali sostenitori del Labour. Un errore che un militare al governo non avrebbe mai compiuto.
Con la sua carriera politica agli sgoccioli Peres lasciò il partito laburista e si mise proprio con Sharon in Kadima. Passato da falco a moderato e poi a colomba rincorreva una soluzione diplomatica per la questione palestinese ma l’ictus che tolse Sharon dalla scena rimise il paese nelle mani delle destre. E di una politica che piace alla maggioranza degli israeliani ma crea problemi all’immagine del paese all’estero. Alla ricerca di un volto rassicurante il parlamento si affidò a Peres e l’anziano statista venne eletto presidente d’Israele il 13 giugno 2007. Fu dal 1º gennaio 2013 al 24 luglio 2014 il capo di Stato più anziano del mondo. Lascia due figli Tzvia (Tziki) Walden-Peres, un’esperta in lingue, e due figli, Yoni (nato nel 1952), veterinario,e Chemi, presidente un’importante società israeliana di venture capital.

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Fiamma Nirenstein per il Giornale
Ancora un giorno, un minuto prego, non aveva ancora concluso, non aveva ancora finito. E così la morte ha aspettato un poco, come a far intendere che il suo lavoro è rimasto incompiuto, ma i miracoli non sono di questo mondo; anche se, dopo l’ictus del 13 settembre è un po’ tornata indietro: la famiglia ha smesso per qualche giorno di piangere, la stampa ha lasciato il corridoio dell’ospedale di Sharee Tzedek, i commentatori che già avevano preparato il coccodrillo hanno smesso di incensarlo o di vituperarlo. Shimon poi però se n’è andato, che peccato; in questo intervallo avevo pensato che fosse eterno davvero, coi suoi 93 anni così ben portati. Ancora nel giorno dell’ictus aveva postato un video in cui invitava con entusiasmo a comprare prodotti israeliani, specie la frutta: «tutti vogliono un vassoio di frutta israeliana!». 
Molti pensano che ne ha sbagliate troppe, a volte creando per Israele situazioni pericolose, che il suo sostenere la causa della pace era un marchingegno troppo politicamente corretto per essere sincero fino in fondo. Può darsi: non ha aiutato nessun processo di pace la sua insistenza sulla speranza di una pace con i palestinesi anche nei momenti della Seconda Intifada dei terroristi suicidi, la sua inutile speranza che Arafat, da lui riabilitato, potesse improvvisamente mostrargli, invece che la ghigna dell’odio, una faccia sorridente come quella che aveva esibito insieme a Rabin e a lui quando presero il Nobel per la pace nel 1994, all’indomani dell’inutile eppure tanto lodato accordo di Oslo. 
Ma il suo stile, la sua passione indomita per lo Stato Ebraico fatta di grande determinazione a conservarne la sicurezza mentre portava la bandiera israeliana in giro per il mondo come un vessillo di pace, hanno invece fatto gran bene al Paese. La sua figura ha nobilitato la considerazione di Israele nel mondo. Per lui pace e sionismo non sono mai stati disgiunti, e addirittura non sono stati mai disgiunti pace e bomba atomica: fu lui, su incarico di Ben Gurion, a esserne il principale fautore. Probabilmente senza la sua capacità di trattare coi francesi Israele non avrebbe mai potuto avere la sua arma di difesa definitiva. 
Il libro intero di interviste che ho fatto negli anni a Shimon Peres allaga la mia scrivania. Una delle prime è dell’87, mentre stava per andare da Amsterdam a Londra: là, in mezzo alla notte, lo aspettai seduta, mezza addormentata, a un tavolo ai piedi di un letto nella stanza degli ospiti della casa reale. Era esausto ma accettò di parlare: come sempre invece di enunciare mormorava, era come se trattenesse almeno una parte del suo sogno dentro al cuore anche mentre te lo comunicava. Era un momento straordinario, Stava per incontrare, in segreto, re Hussein per tessere la trama di quelli che da lì a qualche anno sarebbero diventati gli accordi di Oslo. 
Gli incontri diretti con i palestinesi e col mondo arabo in generale erano tabù a quel tempo, e lo restarono per un bel po’. Nei miei ricordi personali ce ne sono alcuni molto importanti: una volta Uri Savir, il suo braccio destro, mi telefonò per chiedere se avevo modo di trovargli in Italia un luogo tranquillo. Una intelligente nobildonna fiorentina, Bona Frescobaldi (ne ricordo il nome a suo onore) si dette subito da fare per ospitare in una sua casa di campagna due delegazioni che arrivarono nel cuore della notte. Credo che ne facesse parte anche Abu Mazen. 
Peres ha tessuto in silenzio e gridando, alla luce del sole e nelle stanze del potere quella pace che non è mai venuta, quel nuovo Medio Oriente che si è scontornato nel caos odierno. Ha preso una strada certamente molto accidentata e destinata a scontrarsi con ostacoli insormontabili. Non ha mai voluto considerare la terribile determinazione islamica a eliminare lo Stato Ebraico.
Perché era un ragazzo socialista polacco, un sionista pieno di ardore sociale e internazionalista. Si chiamava, quando è nato in Polonia, Shimon Perski, è l’unico israeliano che sia stato sia presidente (dal 2007 al 2014) che primo ministro (dal 1984 al 1986 e poi dopo la morte di Rabin, di cui era il conflittuale gemello politico, dal novembre ’95 al giugno del ’96). Gioie e dolori sono parte della storia di queste altissime cariche, come di tutte le innumerevoli altre che ha ricoperto: tre volte Ministro degli Esteri, due ministro della Difesa, una ministro delle Finanze e dei Trasporti. I suoi risultati, sempre straordinari, sono stati però punteggiati sovente da critiche tremende e da sconfitte politiche: le più cocenti sono forse state quelle del ’77 perché era la prima volta che il partito laburista, in un paese semisocialista come Israele, perdeva il potere; e poi certo quella del ’96, quando il potere passò a Netanyahu. La guerra che ha subito all’interno del suo partito, come quella che gli fece Ehud Barak per impedirgli di diventare presidente del partito nel ’99, è paragonabile solo alla sua sconfitta, disgraziatissima, per la carica di presidente di Israele quando fu invece eletto Moshe Katzav nel 2000, una carica che poi si è ripreso nel 2007. 
In compenso ha vinto tante di quelle battaglie politiche, fra cui soprattutto quella degli accordi Oslo con tutti i suoi annessi e connessi, che è difficile persino enumerarli. Oltre alla sua magnifica ispirazione culturale e ideale praticava parecchio anche il suo mestiere di politico. Col suo ritorno nel 2001 sostituì con gusto Ehud Barak alla leadership del partito; gli toccò il ruolo difficile e straordinario di ministro degli esteri del governo Sharon, in un equilibrio funambolico con quello che avrebbe potuto essere il suo peggior nemico. Si preparava, a costo di pesantissime critiche da ogni parte, a quello sgombero di Gaza che, voluto da Sharon, ha avuto in lui un grande sostenitore. 
La seconda Intifada lo ha visto disperato nel tentativo di non lasciare il suo sogno infrangersi sulle esplosioni, ma anche nel tentativo spesso inutile di risvegliare il mondo alle ragioni di Israele. Ce n’è traccia in tutte le sue interviste, in tutti i suoi discorsi: odiava la colpevolizzazione insensata del suo Paese, sapeva benissimo che nel mondo il suo volto veniva continuamente sfregiato dalla diffamazione, e credo che per questo siamo rimasti amici anche quando per me è stato davvero impossibile condividere la sua speranza di pace basata su Oslo. 
Peres era di sicuro geniale: la sua passione per l’alta tecnologia, la sua curiosità cocente per la nanotecnologia, la sua ammirazione per Zuckerberg che chiamava «quel ragazzino ebreo di 27 anni» erano tutte legate alla sua idea di fondo. Nel senso che vedeva in Facebook e simili la rivoluzione vera, quella del suo cuore, quella che da giovane kibbutznik socialista israeliano intendeva come il superamento di ogni confine, di ogni barriera. Questo non entrava mai in contrasto con l’idea che l’autodifesa, da soli, da coraggiosi, è l’unica scelta possibile di Israele. I buoni rapporti con gli Usa e con l’Europa non cancellavano la sua determinazione a combattere il terrorismo, a costruire recinti di difesa e a essere molto cauti nel pensare di cedere territori. 
Ma la sua capacità di irraggiare intelligenza e speranza era quella di un papa, di un attore cinematografico, di un’icona accettabile e adorabile da tutti. Uomo di parte com’era, rappresentava tutta Israele: aveva nel volto tutta la sofferenza per le persecuzioni e poi tutta la gioia del popolo ebraico che è tornato a casa. Ha vissuto minuto per minuto la fatica e la vittoria della costruzione di Israele. Non c’è più nessuno come lui.