la Repubblica, 28 settembre 2016
Si commercia troppo poco, la crisi viene anche da lì
ROMA. La discesa dell’inflazione e il rallentamento degli scambi commerciali legato anche al ritorno del protezionismo stanno mettendo a rischio la già fragile ripresa globale.
L’ allarme arriva dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che, nello stesso giorno, hanno pubblicato due studi che invitano i governi ad agire subito per far ripartire il commercio e la crescita.
I lavori sono anche la conferma che la globalizzazione che ha caratterizzato l’economia mondiale negli ultimi tre decenni si sta progressivamente arrestando, anche a causa di crescenti resistenze politiche.
Secondo le sue stime semestrali, il Wto ritiene che il commercio mondiale crescerà di appena l’1,7% nel 2016, ben al di sotto del 2,8% previsto ad aprile e il dato più basso dal 2009. L’anno prossimo, l’espansione del commercio dovrebbe essere tra l’1,8% e il 3,1%, comunque inferiore al 3,6% stimato sei mesi fa.
Il recente rallentamento del commercio amplifica un trend già avviato negli ultimi anni. Tra il 1985 e il 2007, importazioni e esportazioni sono cresciute a un ritmo doppio rispetto al prodotto interno lordo mondiale. Negli ultimi quattro anni il tasso di crescita è stato più o meno lo stesso. Il Fmi ha investigato il perché di questo cambiamento in uno dei capitoli analitici del suo “World economic outlook” (Weo).
La maggior parte di questo rallentamento è dovuto alla frenata della domanda mondiale e, in particolar modo degli investimenti. Allo stesso tempo, però, un altro fattore significativo è stato il progressivo esaurirsi delle spinte verso una maggiore liberalizzazione degli scambi e il ritorno del protezionismo.
Il Fondo mostra come i dazi tra Paesi siano diminuiti a un ritmo di un punto percentuale l’anno tra il 1986 e il 1995 e di circa mezzo punto fino al 2008. Dalla grande crisi, questa diminuzione si è di fatto arrestata. Allo stesso tempo, le barriere regolatorie sono cresciute in maniera costante fra il 2012 e il 2015. Il numero di accordi di libero scambio è sceso da circa 30 all’anno negli anni ’90 a appena 10 dal 2011.
La maggior parte degli economisti ritiene che l’espansione del commercio internazionale degli ultimi decenni abbia beneficiato l’economia mondiale, permettendo ai Paesi di specializzarsi nella produzione di beni e servizi in cui eccellono e consentendo la diffusione di nuove tecnologie negli Stati più poveri. Tuttavia, la globalizzazione ha anche obbligato aziende nelle economie avanzate a chiudere a causa della concorrenza dai Paesi emergenti, provocando perdite di posti di lavoro.
Questo sta provocando crescenti resistenze verso nuovi trattati di libero scambio: le negoziazioni per un accordo commerciale tra Ue e Stati Uniti (Ttip) faticano ad avanzare a causa di forti opposizioni, soprattutto in Francia e Germania. I principali candidati alla Casa Bianca, Donald Trump e Hillary Clinton si sono detti scettici della liberalizzazione del commercio con una dozzina di Paesi dell’area del Pacifico (Tpp) siglata dal presidente Barack Obama.
Per queste ragioni, il Fondo propone ai governi di combinare misure che consentano di far ripartire il commercio con altre che mitighino i costi per i “perdenti” della globalizzazione. Queste includono politiche attive del lavoro per permettere a chi perde la propria occupazione di trovarne una nuova in una diversa area geografica o in un altro settore.
Il Fondo è altresì convinto che un’altra ricetta necessaria per la crescita globale sia il rilancio degli investimenti. Questo servirebbe a far ripartire il commercio, che è molto legato agli acquisti di macchinari, e a frenare le spinte deflattive che negli ultimi anni hanno colpito la maggior parte delle economie del mondo. Secondo un altro capitolo del Weo, pubblicato anch’esso ieri, circa il 20% delle economie studiate dagli esperti del Fmi sono in deflazione. Per gli economisti di Washington, questo trend è legato al calo del costo delle materie prime e all’insufficiente domanda per beni e servizi.
Ma il rischio è che sia in corso una progressiva riduzione delle aspettative di inflazione, che porti aziende e consumatori a rimandare acquisti e investimenti. Il Fondo teme che questo fenomeno possa ridurre i benefici della politica monetaria espansiva che le banche centrali hanno perseguito dal 2008 e invita i governi a coordinare le politiche fiscali per rilanciare la domanda laddove i conti pubblici lo permettano.