La Stampa, 27 settembre 2016
«Non c’è castigo per chi non si vela. Non è previsto nel Corano. Se indosso l’hijab e il resto non lo faccio per proteggermi dallo sguardo maschile, ma perché credo di rispondere al meglio alla volontà divina. Chi non lo fa però non è peggiore di me». Parola di Sumaya Abdel Qader, sociologa, eletta con il Pd al comune di Milano
Quello di Sumaya Abdel Qader è un nome che nell’estate del nostro scontento (lo scontento delle bagnanti musulmane felici di poter andare al mare con il burkini prima di sentirsi additate sulle spiagge francesi e l’altro, antitetico, di chi in quel costume legge l’ostentazione ideologica di un credo rivendicato dagli jihadisti) viene accostato alle polemiche. Lei, velo in città e burkini in spiaggia, non se ne cura. Bersaglio di critiche anche all’interno del suo partito, la sociologa 38enne nata in Italia da genitori di origini giordano-palestinesi dice piuttosto di voler sciogliere i fraintendimenti che minano il dialogo e lo fa rispondendoci nell’ufficio milanese di Palazzo Marino in cui lavora da quando a giugno è stata eletta consigliera comunale nelle file del Pd.
Da segno di modestia il velo è diventato appariscente: fa paura e fa pure gola al mercato. Avverte un disagio nuovo?
«Le donne musulmane sono prese tra fuochi incrociati. Per la prima volta in Italia ci sono casi di ragazze insultate o a cui è stato strappato il velo. All’inizio avevo sottovalutato il dibattito sul burkini giudicandolo gossip estivo. Sbagliavo: in parte è gossip, ma in parte ha rimesso in discussione il percorso emancipatorio di alcune femministe e di molte ragazze musulmane».
Significa che l’emancipazione passa anche dal burkini?
«Sebbene a volte erroneamente lo diventi, il burkini non nasce come simbolo politico ma come costume per le donne che prima avevano il divieto di andare in piscina coperte e si bagnavano al mare con grossi impedimenti fisici. Lo usano pure le cinesi riluttanti all’abbronzatura. Il nodo non è l’emancipazione. Il burkini, come il velo, è parte dell’abbigliamento delle musulmane che vogliono essere coerenti con una scelta di fede. Per tante, non per tutte, è una decisione libera da poter anche un domani ripensare. Vero, c’è chi si copre per il marito, per la società, per imposizione dello Stato: ma mi ha dato fastidio la rimessa in discussione di tante come me, consapevoli, integrate e di colpo ritenute sottomesse. Quelle come me sono nella fase tre: abbiamo abbandonato i complessi di inferiorità o di superiorità. E non ci torniamo».
Come riconoscere le Sumaya?
«Come riconoscere in strada le donne vittime di violenza domestica? È difficile. Dateci fiducia, le musulmane si stanno auto-determinando. Serve tempo. E il velo, che nelle nostre società pre-islamiche era solo oppressione, può addirittura aiutare perché è una proposta non forzata di Dio».
«Non forzata» vuol dire che chi non si vela non è meno pia?
«Non c’è castigo per chi non si vela. Non è previsto nel Corano. Se indosso l’hijab e il resto non lo faccio per proteggermi dallo sguardo maschile, ma perché credo di rispondere al meglio alla volontà divina. Chi non lo fa però non è peggiore di me».
La diffidenza nasce dalla paura.
«Lo so, la paura della Francia è più che comprensibile, non la condanno. Dico solo che siamo tutti sulla stessa barca».
I musulmani vogliono tutti davvero dirimere gli equivoci?
«Abbiamo sbagliato tanto serrandoci nel vittimismo. Non siamo riusciti a rassicurare l’Occidente perché anche noi, come mondo musulmano, siamo in crisi nel confronto con la modernità. Non condivido, per dire, l’ossessione di islamizzate tutto, il cibo islamico, la moda islamica. Basterebbe parlare di “conforme” a una scelta di fede e non si escluderebbe nessuno. Inoltre è ora per noi di smetterla di demonizzare l’Occidente».