la Repubblica, 27 settembre 2016
Quel giorno che la Cattaneo salì al Quirinale da Napolitano
Tutto cominciò con una telefonata giunta in serata in laboratorio. Dall’altro capo del telefono venivo informata che il presidente Napolitano desiderava incontrarmi. Sfido chiunque a non pensare di tutto, anche a: «Cosa posso avere fatto di male?». Poi è venuto il momento dell’incontro. Seduti nel salottino dello studio (quello dei messaggi di fine anno), il presidente Napolitano mi ha raccontato dei padri costituenti, della nostra Costituzione, della storia d’Italia. Le sue parole aprivano le porte su eventi che avevo solo studiato, davano forma e sembianze concrete a personalità immense del nostro passato che conoscevo solo sui libri o in fotografia. Dentro di me continuavo a pensare: «Ma io mi occupo di cellule, di una malattia, sono una biologa», come se quella scena che stavo vivendo non mi appartenesse, anche se era garantita da chi mi stava di fronte. Il presidente citò proprio la professoressa Rita Levi Montalcini, scomparsa pochi mesi prima. Mi disse che aveva deciso di nominare i nuovi senatori a vita e che tra loro voleva una scienziata, queste le sue parole, «ancora attiva, dentro e fuori il laboratorio» e che aveva identificato me. Aveva poi concluso con un: «Cosa ne pensa?».
Non so le volte che ho raccontato il momento che ne è seguito. Tutto dentro di me si è fermato. Era come se ogni atomo di me fosse stato paralizzato da quella domanda. Era naturale – me lo dico oggi – che non riuscissi a capire bene. Un po’ meno naturale fu il passare dei secondi senza essere nemmeno in grado di mettere in fila una frase di senso compiuto. Il presidente se ne accorse e toccandomi il braccio, come per scuotermi, un po’ scherzosamente, mi disse: «Professoressa, le faccio portare un cordiale?». Sì, «un cordiale» era proprio quello che mi ci voleva... per stendermi del tutto, essendo io totalmente astemia. Eppure quella parola un po’ desueta mi ha riportata alle abitudini dei miei nonni. Erano decenni che non la sentivo più pronunciare. Mi ha fatto riprendere conoscenza. Ricordo bene di avere detto: «Sarebbe un grande onore ma... studio una malattia, l’Huntington, ho un laboratorio di ricerca, non potrei mai abbandonare i malati...». Non mi ha permesso di continuare. Sapeva del mio lavoro. Non poteva che essere così. Ha aggiunto: «So tutto del gene antico e l’ultima cosa che voglio è togliere una risorsa alla ricerca». E poi: «Le sto chiedendo di continuare a essere uno scienziato attivo dentro e fuori il laboratorio, le offro la possibilità di farlo potendo intervenire e contribuire ai lavori del Senato della Repubblica». Quelle parole toccavano le corde delle mie più grandi passioni, oltre alla scienza: l’impegno civile e la possibilità di contribuire a costruire una società più competente e partecipativa. E con la facoltà di proseguire i miei studi sul “gene antico”, nato milioni di anni fa e responsabile della malattia di Huntington. Ancora oggi non ricordo come, quella sera, arrivai alla Stazione Termini in tempo per prendere l’ultimo treno per Milano. Devo aver camminato a lungo, con i pensieri che vagavano in tutte le direzioni. Ho chiamato mio marito. Poi ho mandato un messaggio ai miei due figli, Francesca e Marco, chiedendo loro di aspettarmi prima di chiudere la giornata. Quando sono arrivata a casa era quasi l’una di notte, li ho trovati mezzi addormentati. Non posso dire la loro sorpresa, le loro (opposte) reazioni, le loro parole. Ancora oggi, ricordandole bene, mi emozionano e mi fanno sorridere.