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 2016  settembre 26 Lunedì calendario

Italia, il Paese degli avvocati

Trent’anni fa il paradiso: nel 1985 i legali italiani non erano nemmeno 50mila (per la precisione 48.327), avere un figlio avvocato era l’orgoglio di ogni mamma, la concorrenza limitata, i clienti non facevano i pignoli su costi e parcelle. Poi, lentamente, è iniziata la discesa: gli albi professionali hanno preso a gonfiarsi, i nuovi ingressi sono diventati una marea inarrestabile. Il record è del 1995: in soli 12 mesi furono iscritti all’Ordine un numero di legali pari all’11,6% di quelli già in attività. Il risultato sono i numeri di oggi: l’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di avvocati, 237mila quelli iscritti alla Cassa forense, l’ente previdenziale di categoria. E anche in rapporto agli abitanti, se si eccettua il piccolo Liechtenstein, specializzato però nell’attività finanziaria e giuridica offshore, siamo i numeri uno. Nella penisola ogni mille abitanti ci sono quattro legali. A tenerci testa, e non sembra un grande onore, è solo la Grecia, mentre anche la Spagna (vedi la tabella nella pagina successiva) viene dietro di noi. I professionisti di Lazio e Campania (in tutto 11,6 milioni di abitanti) sono 66mila, vale a dire 6mila in più di quelli attivi nell’intera Francia (poco più di 60mila) dove gli abitanti sono 66 milioni.
Può funzionare un settore con numeri del genere? Al massimo può sopravvivere. E non è un caso che la crisi economica abbia colpito le toghe così duramente. I dati della Cassa forense segnalano tra il 2010 e il 2015 un crollo del reddito medio superiore al 21%. Naturalmente, come sempre accade nel nostro Paese, le medie sono il frutto di realtà diversissime tra loro, perché la Penisola sembra fatta di un pezzo di Germania e un pezzo di Grecia mischiati tra di loro. Quanto alla densità di professionisti basta confrontare il dato di Trentino e Piemonte, in cui gli avvocati ogni mille abitanti sono rispettivamente 1,7 e 2,2, con quelli di Calabria e Campania dove le cifre corrispondenti sono 6,6 e 5,8.
All’inflazione degli studi corrisponde la diversità dei redditi. Un avvocato di Milano denuncia in media un imponibile Irpef di 83mila euro l’anno. Per un avvocato calabrese il reddito medio è di poco superiore ai 16mila, con dei picchi negativi a Palmi, Locri, Vibo e Castrovillari (vedi anche l’articolo a fianco) tra i 13 e i 14mila. E la differenza non la fa la dimensione della città in cui si esercita l’attività visto che nella piccola Bolzano i redditi superano i 67mila euro.
Per la categoria l’ultimo scossone in ordine di tempo è stato quello di rendere obbligatoria l’iscrizione alla Cassa forense per gli iscritti all’albo, pena la cancellazione. Il prossimo, che sembra ormai imminente, è la riforma dell’accesso alla professione. Visto il diluvio degli anni passati si parla da tempo di un freno che possa contingentare l’afflusso di nuove leve. In discussione c’è stato il numero chiuso alle facoltà di Giurisprudenza. Il ministero di Giustizia ha fatto una scelta diversa e l’ha resa esplicita nello schema di decreto inviato al Consiglio nazionale forense sulle nuove regole per diventare avvocati: dopo la laurea bisognerà frequentare delle scuole di specializzazione, gestite dagli Ordini locali, con una prova di accesso e test intermedi. Solo dopo si potrà affrontare l’esame di Stato. L’ammissione alle scuole avverrà in base a un numero «programmato» stabilito per decreto. Il Consiglio nazionale forense ha già rispedito al ministero il documento con un sostanziale via libera. L’unico vero punto di contrasto è proprio sul «numero programmato». Il Consiglio preferirebbe non un’indicazione formale ma una selezione basata sul merito e sulla disponibilità di posti nelle scuole. «Di sicuro il praticantato non può più essere un parcheggio in cui ci si sistema magari in attesa di sostenere un concorso», spiega Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense. «Il percorso deve diventare più impegnativo e professionalizzante».