CorrierEconomia, 26 settembre 2016
Le sfide parallele di Apple e Samsung
Maria Teresa Cometto
Apple è diventata l’azienda più grande al mondo per valore di Borsa seguendo una filosofia opposta a quella della sua rivale Samsung. Mentre il gruppo coreano è impegnato in mille attività diverse, oltre alla produzione degli smartphone Galaxy, la società fondata da Steve Jobs 40 anni fa e ora guidata da Tim Cook si è sempre concentrata sul fare poche cose ma benissimo. E di fascia alta per la qualità e il prezzo.
Il successo
Una strategia che finora ha pagato. Se è vero che Samsung ha la maggior quota del mercato dei telefonini intelligent”, il 22,3%, è altrettanto vero che il singolo modello più venduto è un iPhone, il 6S che lo scorso trimestre e’ diventato «il più popolare al mondo» — secondo Strategy analytics — con 14,2 milioni di apparecchi venduti. Al secondo posto, l’iPhone precedente, il 6 con 8,5 milioni di pezzi e solo al terzo posto si è piazzato il concorrente Galaxy S7 Edge con 8,3 milioni di unità vendute.
Anche l’ultimo della serie, l’iPhone 7, appena lanciato in America è andato a ruba, contraddicendo le previsioni pessimiste di molti analisti secondo i quali la mancanza di novità rivoluzionarie avrebbe causato un’accoglienza tiepida.
A determinare il suo successo non ha certo guastato l’incidente di percorso di Samsung, che ha dovuto ritirare milioni di pezzi del suo prodotto di punta, il Galaxy note 7, perché le sue batterie si incendiavano. L’iPhone da solo continua a generale oltre la metà del fatturato e dei profitti della Mela, ma il suo tasso di crescita è in calo come lo è l’intero mercato degli smartphone. Le vendite globali di tutti i marchi sono infatti aumentate solo dell’1% dal secondo trimestre 2015 allo stesso periodo del 2016 e secondo gli analisti quelle dell’iPhone cresceranno solo di tre punti percentuali l’anno nel prossimo quadriennio, un brusco rallentamento rispetto al passato. In cerca di nuovi mercati, dopo la Cina e l’India, Apple si appresta a sfidare Samsung anche in casa sua, in Corea del Sud, dove finora l’iPhone è stato disponibile solo attraverso rivenditori terzi. Gli inviati di Cook stanno cercando il posto giusto per aprire il primo negozio della Mela a Seul, vicino all’emporio più rappresentativo di Samsung.
Il futuro
Oltre l’iPhone, il problema di Cook è quindi trovare la prossima grande opportunità di sviluppo. Ed è su questo tema che stanno fiorendo tutte le voci sulla iCar ovvero l’automobile elettrica e forse autonoma Made in Cupertino.
L’ultima voce rimbalzata dalla Silicon valley a Wall Street fino in Europa parla di un interesse all’acquisto di McLaren, la casa automobilistica britannica famosa per i suoi bolidi da Formula Uno e per i modelli di lusso che costano fino a 1 milione di dollari, concorrenti di Ferrari e Lamborghini. Si tratterebbe della terza significativa acquisizione da parte di Cook, dopo i 3 miliardi di dollari spesi nel 2014 per Beats, la società del produttore musicale Jimmy Iovine e della star dell’hip-hop Dr Dre e il miliardo investito quest’anno in Didi Chuxing, la app più usata in Cina per chiamare un taxi. Beats, che oltre a produrre cuffie di alta qualità offriva musica in streaming, è servita alla Apple per entrare in questo nuovo business, dove adesso conta già 17 milioni di abbonamenti a pagamento (10 dollari al mese). La motivazione di Didi sembra più legata al progetto dell’iCar ma finora non sono stati spiegati i termini della collaborazione fra Cupertino e la società cinese. Apple in effetti può vantare dei punti di forza capaci di innovare anche l’industria automobilistica e aprire al marchio della Mela nuove, rilevanti fonti di profitto. Lo pensa uno dei massimi esperti del settore, Stefano Aversa, presidente di AlixPartners, la società di consulenza che pubblica ogni anno la bibbia sui mega trend dell’industria automobilistica.
Intanto Cook ha ancora molto da fare a sfruttare le potenzialità dei servizi collegati all’iPhone, dai pagamenti alle app per controllare la casa e la salute. E l’ultimo manager reclutato, il veterano della tv via cavo Peter Stern, mostra che è sempre vivo anche il progetto di una iTV.
Guido Santevecchi per il CorrierEconomia
«Si può cambiare tutto, escluso la moglie e i figli», disse una ventina d’anni fa Lee Kun-hee, presidente di Samsung. Il momento di mettere in pratica quel pensiero, per il gruppo coreano primo produttore mondiale di smartphone è arrivato in modo drammatico. Nel 2014, all’età di 72 anni, il presidente Lee è stato messo fuori gioco da un infarto e questa estate una batteria difettosa che poteva prendere fuoco ha costretto gli ingegneri sudcoreani a richiamare 2,5 milioni di esemplari della loro ultima creatura, il Galaxy Note 7 appena lanciato a tempi forzati sul mercato per anticipare il rivale iPhone 7 di Apple.
La storia
Nel mezzo di una crisi che potrebbe costare fino a 5 miliardi di dollari tra sostituzione dei Note 7 e mancati profitti, il 12 settembre è arrivato il primo cambiamento: Lee Jae-yong, figlio del presidente malato, è stato chiamato nel consiglio d’amministrazione di Samsung Electronics. Lee Jae-yong, 48 anni, laureato a Harvard (dall’esperienza americana si fa chiamare anche Jay Y.), è in azienda dal 2001 ma era rimasto co-vicepresidente anche dopo il 2014 perché la cultura confuciana della pietà filiale seguita in Corea non prevede la successione finché il padre è in vita, anche se come nel caso di Lee senior non è più fisicamente in grado di guidare un business da oltre 300 miliardi di fatturato l’anno (un quinto del Pil della Corea del Sud).
«L’ accelerazione di Jay Y. in consiglio d’amministrazione prova che Samsung ha bisogno di una leadership forte in una fase di rischio e dà un segnale ai mercati in questa direzione», spiega Park Ju Gun, capo della società di ricerca CeoScore di Seul. Samsung ha annunciato che Lee Jae-yong sarà particolarmente coinvolto nelle decisioni strategiche come fusioni e acquisizioni. E qualcosa di strategico in queste settimane si è visto.
Samsung per noi è sinonimo di smartphone, con la sua quota mondiale di mercato al 22,3% nel secondo trimestre del 2016 (42,4% in Italia); questi gadget, uniti ad altri componenti elettronici ad alta tecnologia rappresentano i due terzi del fatturato del gruppo, ma Samsung è anche un «chaebol»: la parola coreana identifica i giganteschi gruppi a conduzione familiare che hanno guidato l’ascesa industriale della Corea del Sud. Samsung spazia dalle lavatrici alle petroliere, dai televisori alle navi portacontainer. C’è anche una Samsung Everland, specializzata in resort di vacanze e zoo e una Samsung Life Insurance, che fornisce polizze d’assicurazione, magari anche contro il rischio di essere aggredito da uno dei leoni di Samsung Everland. Tutte queste attività sommate portano a quasi 500 mila dipendenti in una ottantina di società sorelle.
Le decisioni
L’azienda delle Tre Stelle (questo significa Samsung in coreano) ha deciso di fare un po’ di pulizia nella sua galassia: Samsung Electronics ha venduto in rapida successione la divisione stampanti a HP per 1,05 miliardi di dollari; poi metà della sua partecipazione in ASML per 675 milioni di dollari e le quote azionarie di Seagate Technology, Sharp e Rambus che sommate dovrebbero aver fruttato almeno altri 456 milioni di dollari secondo la valutazione di Reuters. Il cash servirebbe a far fronte al costo del richiamo del Galaxy Note 7 e a concentrarsi sul core business. Ma Jay Y. promette di allargare, non di ridurre gli orizzonti di Samsung. La nuova frontiera può essere la biofarmaceutica. Dopotutto, far crescere proteine in cellule animali, su base industriale e in impianti asettici ad altissimo grado di sicurezza qualitativa, non è poi così diverso dal sistema di produzione usato per i circuiti dei microchip sviluppati su wafer di silicio.
I tecnici di Samsung sono abituati a lavorare in queste condizioni sofisticate e l’azienda può proporsi come grande fornitore di medicine biotecnologiche: è già annunciato lo sbarco in Borsa di Samsung Biologics con una Ipo da 1,8-2.7 miliardi di dollari. Un’altra voce di mercato riguarda l’interesse di Samsung per la Magneti Marelli: più che un’acquisizione potrebbe trattarsi di una joint venture con Fiat Chrysler e tra gli indizi di una possibile collaborazione c’è la circostanza che Lee Jae-yong siede come consigliere indipendente in Exor, la holding della famiglia Agnelli.
Al momento però c’è da difendere il mercato degli smartphone e far uscire il brand senza troppe bruciature dal fallimento delle nuove batterie dei Galaxy Note 7, concepite per durare più a lungo di quelle della Apple e colpevoli invece degli incidenti che hanno portato al ritiro temporaneo.
Per evitare il surriscaldamento, da Seul hanno pensato di ridurre la carica della batteria al 60%, un rimedio che fa poco piacere a chi ha speso oltre 880 dollari per un Note 7 che prometteva di operare nove ore filate. Dicono che per motivare un dipendente di Samsung Electronics, dai dirigenti agli ingegneri alle tute blu, basti agitare il drappo della competizione con gli americani di Apple. Questa volta la fretta avrebbe portato a quello che il capo di Samsung mobile, Koh Dong-jin, ha descritto come «un piccolo errore nel processo produttivo delle batterie che ha provocato il contatto degli elettrodi negativi con quelli positivi».
Ma oltre a sanare il difetto di produzione, che sarà superato e dimenticato com’è stato in passato per grandi case automobilistiche costrette a richiamare milioni di veicoli, Samsung deve ripensare alla sfida per dominare il mercato degli smartphone. Secondo gli analisti invece di fare la corsa su Apple, i coreani devono preoccuparsi di Huawei, Lenovo, Xiaomi, Oppo, i marchi cinesi che riescono a tenere i loro prezzi molto più bassi di quelli dei due giganti rivali. Meno hardware e più software.