Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  settembre 26 Lunedì calendario

Quando Garrincha giocò nel Sacrofano per 80mila lire

Adesso la maglia di Garrincha la porta Carinci, è bizzarro il tempo quando si mette a dribblare anche i cognomi, giocando. Alessandro Carinci ha 25 anni e fa il cameriere all’Hilton di Roma, però con una laurea in scienze della comunicazione che prima o poi, magari, chissà. «I master di giornalismo costano, il mestiere cambia e ci sono sempre meno spazi, no?».
Alessandro indossa una numero 7 unica al mondo. Per tre volte la più grande ala destra di tutti i tempi, Manoel Francisco dos Santos detto Garrincha (il nome di un passerotto che scelse per lui la sorella Rosa), la mise sopra le sue ossa sbilenche. La maglia numero 7 del Sacrofano, là dove Roma si stempera nelle colline verso Viterbo. Era l’estate del 1970 e Manè Garrincha, già rovinato dalla vita e da se stesso, viveva in un bungalow di Torvaianica innamorato pazzo della sua Elza, cantante di bossa nova con un ingaggio per tre serate al Sistina. Lei di notte cantava, lui di giorno beveva, lei di giorno dormiva e lui ciondolava sulla spiaggia, trascinando una gamba più corta dell’altra, solo come era sempre stato. Anche quando aveva vinto l’ultima Coppa Rimet nel 1962, appena otto anni prima, era solo. Forse più grande di Pelé, ma disperato e fragile. Otto anni, un precipizio.
Garrincha seguì in Italia la sua Elza, Elza Soares. Aveva un amico, Dino Da Costa, ex calciatore del Botafogo e della Roma, brasiliano come lui. Vieni a dare quattro calci con noi a Sacrofano, gli disse. Di quella piccola squadra in Prima categoria era allenatore e giocatore. Allora non si potevano tesserare stranieri neppure tra i dilettanti e Garrincha andò a Sacrofano soltanto per allenarsi, per passare il tempo e per giocare un quadrangolare a Mignano Monte Lungo, 80 mila lire a partita, tante, per lui senza più un soldo. Una leggenda dello sport su un campetto spelacchiato, contro macellai e meccanici.
«Ho letto tutta la sua storia», dice Carinci di Garrincha. «So che dribblava, e veramente dribblo anch’io. So che era povero e malato e che lo giudicavano un mezzo scemo, e so che nello sport non esistono limiti se vuoi davvero una cosa. Ora mi guarderò i filmati su YouTube». Alessandro è nato a Sacrofano come quasi tutti i suoi compagni di squadra. «Siamo una specie di Atletico Bilbao, tutti dello stesso paese che modestamente è un bellissimo posto, qui siamo tra amici, a Sacrofano esiste pure la raccolta differenziata dei rifiuti e a Roma ancora no».
Invece il signor Carlo non ha bisogno di cercare Garrincha su Internet, perché l’ha intrappolato nella rete degli occhi, tanto tempo fa. «Giocai quelle tre partite con lui, lo ricordo perfettamente», dice Carlo Sassi, ex terzino sinistro e capitano del Sacrofano. Oggi, quella fascia sul braccio la porta il figlio Andrea. «Avevo vent’anni, Garrincha era sempre silenzioso, poi di colpo sorrideva senza dire niente. Anche se era già molto malandato nessuno poteva portargli via il pallone. Segnò due gol da calcio d’angolo, uno sul primo palo, l’altro sul secondo. Era un uomo storto e aveva storto anche il tiro, però che meraviglia».
C’è una vecchia foto del Sacrofano, Mané guarda in basso. In un’altra fissa il fotografo e sembra un bambino spaventato. «I nostri cento allievi della scuola calcio non sanno neanche chi fosse, e neppure i loro genitori lo sanno», dice il presidente Edoardo Valentini. «Glielo dovremo spiegare, perché Garrincha è una ricchezza per tutti noi». Oggi il Sacrofano gioca in Seconda categoria, al campo di Monte Sarapollo c’è sempre un po’ di pubblico e sarà così almeno fino a novembre, fino alle domeniche della raccolta delle olive. Qui, dove giocò Garrincha. Perché ci sono storie che partono da lontanissimo e si attorcigliano nel tempo, possono cominciare al Maracanã e arrivare in qualche angolo sperduto di mondo, sostare un momento come un passerotto sul ramo, e poi ripartire.