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 2016  settembre 23 Venerdì calendario

A Vigneto di Cassano, dove vivono nove italiani e quindici stranieri

Vigneto di Cassano (Piacenza) Dagli oltre 600 metri di Montesanto soffia un’aria pulita che porta a valle i rumori. Uno di questi è inconfondibile: tronchi spaccati dall’ascia. Dopo la seconda curva a gomito, si scopre che i taglialegna sono un allegro quanto imprevedibile gruppo di giovani del Bangladesh, in attesa del pranzo. Alle 10.30 l’odore del curry, per il pollo con riso che finirà mangiato in ragguardevoli coppe da insalata, già si spande tra alberi carichi di mele e di noci e tra le vigne scoscese.
Siccome il mondo sa essere surreale, la casa colonica di tre piani con tre bagni dove i profughi abitano da un mese è stata appena dipinta, da loro stessi, in azzurro puffo, compresi i muretti e alcuni alberi. Intorno alla casa e al robusto Mialiton, «the boss», come lo chiamano, al diciottenne Alizemn, al ridente Sohel, al musone Anowgy e agli altri giovani del Bangladesh, si raggruma Vigneto di Cassano, minuscola frazione che continua a friggere di rancore. Tanto che, in un esposto al prefetto e al sindaco, ha espresso «totale disagio». La spiegazione migliore «delle problematiche» viene da Alberto Giovannini, tecnico radiologo in pensione. Sulla finestra ha una bandierina italiana e in un campo le nuove fungaie per i tartufi neri: «Questo è paesino di montagna, con cinque famiglie residenti. All’improvviso, a giugno, hanno mandato tre coppie di nigeriani e a luglio, com’erano arrivate, sono scomparse. È tornato il silenzio, finché a metà agosto in quella casa, la casa dell’Adriano, arrivano pulmini, con le reti di materasso, i sacchi di patate e quindici giovani del Bangladesh. Nove abitanti italiani e quindici stranieri, ma è giusto? Qui – puntualizza Giovannini – non è questione di razzismo, ma d’invasione. Il mio vicino, che ora è in vigna, ha l’agriturismo e nel weekend c’erano gli ospiti, i quali aprono le finestre e “so mia me”, non so io, invece di godersi le colline del piacentino…», alza la mano e indica gli orientali, che da lontano sorridono e salutano.
Al di là delle decisioni del prefetto di Piacenza, il microcosmo di Vigneto è un esempio del «metodo» che viene applicato, qui e là, lungo l’intera Penisola. Ad affittare la casa è uno del posto. Ex bancario, figlio di contadini, 66 anni, proprietario di altre case in pietra, Adriano Rossi non trattiene il sogghigno: «A me fa piacere aiutarli, perché no? Una società mi paga mille euro al mese d’affitto e gli inquilini sono bravissimi, anche se gli vanno spiegate un po’ di questioni. Uno dei primi giorni, per dire, hanno preso il mio trattore per andare su e giù, è stato pandemonio, così ho tolto la pompa della benzina e ciao. Poi un pomeriggio sono andati a girare per le vigne e hanno mangiato tre grappoli tre. Ma i vicini hanno addirittura telefonato ai carabinieri e i ragazzi, davanti al maresciallo, l’han capita che l’uva non è di tutti. Adesso sono dietro a spaccare la legna per il camino, non conoscono la neve, ma sono operosi. Quando m’hanno dipinto la casa, guardi che bel ramo lungo hanno usato», dice, mostrando un tronco sui quattro metri, con il quale gli spericolati ospiti hanno sostituito un ponteggio fai-da-te, talmente in discesa da far accorrere i tecnici comunali di Ponte dell’Olio.
Se per il piacentino Rossi, insomma, è un gran piacere «avere questi giovani tra noi, li faccio giocare con le mie figlie», tra le scarse case dalle mura massicce, le travi a vista e l’ortrugo frizzante in frigo, circola un’altra matematica: «Certo che all’Adriano i bengalesi vanno alla grande. Ci guadagna la pigione e si fa sistemare le cose, ma noi altre? Siamo tre donne sole», protesta Carolina, che ha trascorso «i primi giorni a spiegare che no, non si buttano i torsoli dove capita». Un’altra voce s’aggiunge: «Con quindici stranieri, per 30 euro a cranio al giorno, e sappiamo che sono di più, si raggiunge la bella sommetta di oltre 160mila euro all’anno. Tolte le spese, chi ha in affido questa gente chi è? Uno che guadagna, e forte, ma a spese della nostra tranquillità. Punto».
Raggiungiamo dunque Carlo Loranzi della Rest. Rivendica di non avere una cooperativa sociale: «Eravamo albergatori, dal 2011 ci siamo dedicati al lavoro degli stranieri. Le cose stanno così. In casa di Rossi prima c’erano dei neri, mandati là dalle suore. Quando sono andati via loro e c’era da risolvere la situazione del Bangladesh, perché non provarci? Se posso dire la mia, i tre quarti dell’Italia dai 500 metri in su sono spopolati, mandarci i migranti non è sbagliato. Comprendo che per gli abitanti di Vigneto possa essere stato un trauma, ma solo finché non si parlano tra tutti quanti».
Senza nascondere una gioiosa soddisfazione, nella casa pulita a specchio c’è chi tra i giovani arrivati da Dacca via Libia («Dove io – racconta Amir, 18 anni – sono stato rapinato di tutti i soldi da gente armata») mostra l’antico letto di legno, in cui dorme senza incubi, e chi gli attrezzi da ginnastica, fabbricati con sassi e bottiglie di plastica. Chi indica i sacchi di cibarie e chi insiste per offrire una «coca-cola, po’ di pollo, riso, niente maiale qui, siamo mussulmani». Sul fuoristrada, il padrone di casa è altrettanto felice: «Ma ha visto in tv i migranti nei container? Sia sincero, non è meglio qui a Vigneto?», domanda mentre ingrana la prima e guarda i vicini, aggiungendo, sembra, un antico scongiuro.