Corriere della Sera, 30 agosto 2016
Il ritorno ai campi dei giovani italiani
Moira Donati è l’esempio perfetto di che cosa significa oggi scegliere di diventare agricoltore in Italia. Non l’ha fatto perché aveva un’azienda familiare da ereditare. «Mio nonno era agricoltore, ma poi la campagna era rimasta lì. Ho ricominciato da zero». Non subito, però. Si è prima laureata in Scienze delle comunicazioni, poi un master di specializzazione sull’ambiente e un lavoro nella pubblica amministrazione per 7 anni. «Ho capito che non era la mia strada. Per esser realizzata ho bisogno di avere una visione del progetto e un risultato di ritorno».
Cinque anni fa, quando aveva 31 anni, la svolta, dopo che le viene regalato un asinello. È l’inizio di un allevamento, l’idea è utilizzare il latte per prodotti cosmetici di qualità. Si riappropria della campagna del nonno nella montagna trentina, tra Riva del Garda e Madonna di Campiglio, produce il foraggio per i suoi animali, coltiva le erbe e raccoglie quelle spontanee. Ma il ritorno al passato non basta senza un progetto di futuro. «Mi sono rivolta a un laboratorio che collabora con l’Università di Padova e con quella di Ferrara. Hanno studiato come lavorare al meglio il latte di asina, che è delicatissimo, come esaltarlo con l’estrazione dei principi attivi delle piante». Adesso gli asini sono diventati 35, altri ne nasceranno la prossima primavera, e Moira presto produrrà latte anche per uso alimentare. Nei campi crescono frutti e lei li trasforma in confetture originali come mele e lavanda o petali di rose. Vende in Italia e all’estero, sfruttando Internet. «Gli studi universitari non li ho buttati, il marketing sta tornando utile. Non basta avere un prodotto di eccellenza se poi non lo vesti e presenti bene».
È questa l’immagine dei giovani che tornano a credere nella campagna. Colti, spesso laureati, consapevoli di recuperare terre e saperi troppo in fretta abbandonati negli anni del boom e della corsa alla città, padroni delle nuove tecnologie, che controllano i campi con i droni e si fanno conoscere con i social network. E, soprattutto, sono sempre di più. Nel 2015 quasi 20 mila nuovi occupati sotto i 40 anni, + 12,7% rispetto all’anno precedente, mentre tutto il settore era al +4% e l’occupazione in Italia appena all’1% in più. Secondo un’indagine Coldiretti/Ixè la metà ha una laurea, il 57% ha fatto innovazione, il 74% è orgoglioso della propria scelta, il 78% è più contento di prima.
«Il nostro è un settore che si sta modificando profondamente, la crescita è reale nell’occupazione, nell’export e nel valore aggiunto – osserva Maria Letizia Gardoni, presidente di Giovani impresa della Coldiretti —. Ed è un fenomeno che coinvolge sia uomini che donne. Da sempre la figura dell’agricoltore era legata alla virilità maschile, adesso le distinzioni di genere si stanno riducendo».
La formazione
Non è solo colpa della crisi che ha ridotto le opportunità: sta maturando una nuova cultura che spinge soprattutto le nuove generazioni a ripensare il proprio stile di vita, a valorizzare un patrimonio unico al mondo. L’Italia è la culla di 283 prodotti Dop e Igp, e di ben 4.965 specialità regionali: è facile intuire che questa è una miniera da sfruttare. I ragazzi lo hanno capito bene, se è vero che, nello scorso anno scolastico, in 61 mila si sono iscritti negli istituti tecnici agrari o del settore enogastronomico, con un balzo di +44% rispetto all’anno precedente. E le matricole delle facoltà di Scienze agrarie sono in aumento costante, praticamente raddoppiate negli ultimi 8 anni.
«C’è sicuramente un maggiore interesse verso i nostri corsi di laurea, tanto che molte sedi hanno dovuto limitare l’accesso per poter dare una giusta assistenza agli studenti» conferma Vincenzo Gerbi, vicedirettore alla didattica di Scienze agrarie a Torino e presidente di Aissa, l’Associazione delle società scientifiche di agraria. «Rispetto a una decina di anni fa – prosegue Gerbi —, quando la maggior parte degli studenti proveniva da una formazione tecnica, adesso più della metà ha fatto il liceo. È una scelta di vita, partecipano intensamente alle lezioni, si confrontano e discutono con noi professori sui metodi e sulle teorie. Hanno una visione etica, si avvicinano a questo mondo per aumentarne l’aspetto naturale, e maturano anche la convinzione che serva un approccio scientifico, troppo spesso demonizzato dall’opinione pubblica».
Chi esce da queste facoltà ha buona probabilità di trovare un lavoro che gli permetta di sfruttare le conoscenze acquisite. Secondo l’ultimo rapporto AlmaLaurea, il 72% di chi ha conseguito una laurea magistrale in agraria lavora dopo un anno, l’86% dopo 5 anni. Anche se, bisogna aggiungere, la retribuzione media è più bassa rispetto alla media nazionale.
Un processo epocale
Sarebbe tuttavia riduttivo considerare la (ri)scoperta dell’agricoltura solo dalla prospettiva economica. Lo sa bene Alberto Magnaghi, architetto urbanista, professore emerito dell’Università di Firenze e fondatore della Società dei territorialisti che ha dedicato, con la rivista Scienze del territorio, tre numeri al ritorno alla terra e alla montagna.
«Non è solo un fenomeno di inversione quantitativa rispetto allo spopolamento degli anni Cinquanta – osserva – è un vero “controesodo”, avvenuto non attraverso politiche pubbliche ma in termini spontanei. È un processo epocale e non solo numerico che genera un nuovo paradigma dell’abitare e del produrre. Si può parlare dell’avvio di una nuova civilizzazione post industriale, agro-terziaria avanzata, cui attribuiamo grande importanza strategica».
Magnaghi utilizza anche il concetto di «coscienza di luogo», contrapposto alla «coscienza di classe». «Di fronte alla globalizzazione e telematizzazione – spiega – c’è una sorta di reazione, una crescente attenzione dei cittadini ai valori patrimoniali del territorio, alla sua storia, al paesaggio, all’identità locale generatrice di saperi, di cultura ambientale, di un uso appropriato di innovazioni e tecnologie che producono una messa in valore durevole e sostenibile del patrimonio territoriale. L’esito di questo percorso, che è culturale e non solo produttivo, sta dando vita a un’agricoltura molto diversa da quella industriale o contadina del passato, più sapiente, operata da giovani colti, connessi in rete, con relazioni cosmopolite, tutt’altro che la parte più arretrata della società».
Le opportunità e gli ostacoli
I giovani dunque come attori principali di questa mutazione. «Quello agroalimentare è un settore che dà risposte incredibili. È in corso non solo un’innovazione tecnologica ma anche sociale, l’agricoltore svolge un ruolo strategico per la sua capacità di creare nuove relazioni all’interno della comunità» sottolinea Maria Letizia Gardoni, presidente dei giovani di Coldiretti ma anche imprenditrice che ha giocato la sua scommessa quando aveva 19 anni. La sua azienda produce ortofrutta macrobiotica nelle campagne marchigiane. «Fornisco direttamente le cucine dei ristoranti, per garantire qualità del cibo e chilometro zero». In più fa sperimentazione delle erbe in campo, in collaborazione con l’Università delle Marche, e ha in cantiere un progetto sociale di ippoterapia e l’acquisto di un drone, «per capire meglio la salute dei miei campi». «Sono un agricoltore di prima generazione. Si può e si deve provare, a volte non servono grandi investimenti».
Ma non è sempre agevole. In Italia l’accesso alla terra resta un nodo ancora da sciogliere. «La conformazione del territorio unita alla cementificazione selvaggia – aggiunge Gardoni – determina una disponibilità ridotta, e quel poco che rimane ha prezzi elevatissimi, a volte irraggiungibili per un giovane». Aggiunge l’urbanista Magnaghi: «Le politiche istituzionali pensano più alle città metropolitane che al ripopolamento delle campagne. Un agricoltore che produce servizi ecosistemici e migliora la qualità dell’ambiente e delle città, dovrebbe essere remunerato dal pubblico oltre che dal mercato, come prevedono le norme Ue che in Italia sono poco applicate. E ancora, i costi eccessivi e i passaggi burocratici, per esempio sulle certificazioni biologiche, che spingono molti ragazzi a rinunciarvi e a scegliere un mercato locale basato sulla fiducia».
C’è ancora molto da fare, e tocca alla politica favorire un cambio di rotta che potrebbe rafforzare un settore cruciale nella rinascita del Paese. I giovani, come Moira con i suoi asini e le erbe del Trentino, stanno facendo la loro parte: «Nulla è impossibile – conclude lei —. Ci vuole un’idea razionale, e poi decisione, impegno, forza di coraggio. E lavorare tanto».