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 2016  agosto 30 Martedì calendario

La resistenza del matrimonio, nonostante tutto

L’occidente postmoderno, inclusa la sua ultima italica ruota del carro, vivono con allarme o con entusiasmo le metamorfosi attuali della relazione d’amore: il coniugio, i suoi contenuti e il linguaggio con cui lo si definisce cambiano, e come spesso accade si accompagnano alla sensazione – allarmata o entusiasta – di vivere una transizione più profonda di quelle che hanno segnato il passato. Rafforzata dal fatto che aver rotto il divieto di dare il nome di amore all’amore omosessuale sul quale si erano costruiti sia il pregiudizio omofobo pubblico sia l’autocomprensione delle relazioni fra persone gay e lesbiche. A guardare la storia del coniugio degli ultimi cinque secoli, invece si ha l’impressione che il mutamento sia piccolo: quasi che fossimo ancora all’indomani di quell’11 novembre 1563 – in cui il concilio di Trento approva il decreto “Tametsi”. Dopo sedici anni di discussioni appassionate, esso fissava la cornice giuridica e concettuale del matrimonio, così come ancora oggi viene ambito o rifiutato. Quel decreto conciliare decise a maggioranza di rubricare come matrimoni “clandestini” tutti quelli difformi dalla norma conciliare: e di fare di queste nuzialità spontanee, che dal 1215 venivano riprovate e nulla più, un atto proibito e dunque da combattere. Una svolta epocale, dalla quale ci sentiamo emancipati. E invece ne siamo ancora prigionieri tutti, in una età nella quale solo coloro ai quali è negato dicono di desiderare un matrimonio che invece è pacificamente snobbato da chi può contrarlo e nella quale il sacramento matrimoniale incontra gli stessi naufragi dei più effimeri sposalizi di Las Vegas.
Prima di Trento la chiesa latina aveva cristianizzato con pochi ritocchi il matrimonio romano. Il “matrimonium”, complemento di fecondità corrispondente al “patrimonium” dei maschi, stabiliva il passaggio della donna dalla giurisdizione del padre a quella del marito; fissava dunque le caratteristiche di questa proprietà e anche gli obblighi sentimentali – “coitus matrimonium non facit, sed maritalis affectio” – connessi ad una subalternità piena.
L’eversivo vangelo di Gesù (la ricompensa di Mc 10,30 riguarda chi lascia la moglie per la sequela), quello che esigeva di mettere tutta la vita, e dunque sia il coniugio sia l’eunuchìa, in relazione all’attesa del Regno non era facile da incastrare in questa cornice. Così mentre introduceva nella cultura giuridica dell’impero cristiano l’espunzione del significato dell’omosessualità, la chiesa aggiungeva al patto matrimoniale piccoli segni di eguaglianza solo simbolica, come l’anello della catena che il marito metteva alla moglie nel rito romano e che in quello cristiano diventerà uno “scambio”. I passaggi storici ( Il matrimonio in Occidente di Jean Gaudemet resta impeccabile dopo decenni) portarono a quel matrimonio di “puro consenso” che per secoli fu la regola delle terre della cristianità latina: un consenso libero, detto con parole al presente («prendo te», «ti tocco la mano»), che non aveva bisogno di autorità o testimoni o permessi e che creava un matrimonio indissolubile.
Il matrimonio di puro consenso apriva un gigantesco contenzioso etico e sociale che lasciava la sua scia nei tribunali ecclesiastici. Tribunali nei quali una studiosa attenta come Fernanda Alfieri ha trovato traccia dei matrimoni lesbici del Quattrocento: giunti a noi solo perché finiti davanti al giudice quando la vedovanza giungeva ad aizzare i parenti in lotte “patrimoniali” (!). Silvana Seidel Menchi, che di quelle indagini archivistiche indispensabili e meticolose è stata la mentore su scala mondiale, pubblica ora con Marriage in Europe, 1400- 1800 il seguito di quella storia rinascimentale su cui tanto ha detto e dato. E con una gigantesca indagine a più mani torna a guardare l’intero paesaggio continentale dallo spioncino del tribunale e delle norme post-tridentine: quelle che rifiutano la tesi protestante di un matrimonio che, sacro per natura e non in quanto sacramento, realizza il suo compito di ordinamento sociale grazie al consenso del padre. Il matrimonio tridentino esclude i padri e introduce le componenti che i lettori del Manzoni ben ricordano: l’autorità del parroco, la fisicità del luogo sacro, la socialità impersonata dai testimoni, l’autorità, il valore pubblico dei registri, la comprensione delle effusioni carnali come parte di quel contratto e dunque illecite fuori dai fini procreativi (da qui le polemiche novecentesche sulla contraccezione e sulla omosessualità). Tutte cose che la secolarizzazione del Diciottesimo secolo farà proprie, sostituendo la garanzia della chiesa in ordine alla salvezza con la garanzia dello Stato.
La forza di questo modello è stata tale che perfino le persone lesbiche e gay in lotta per una eguaglianza a lungo negata, hanno fatto di quel coniugio post-tridentino la loro ambizione di fondamentale: e, proprio mentre le persone eterosessuali lo disertano, l’hanno cercato e ottenuto. Ora con il termine “matrimonio” (termine assai meno romantico di “sposalizio”, in cui è incluso il desiderio di rispondersi che due persone assumono), ora con il termine “unione”: lasciando così che l’equiparazione avvenga là dove deve avvenire. In questa cornice qualcosa di nuovo in realtà c’è: e spiega la sensazione di essere in un cambio di epoca del coniugio. E, come ricorda Marriage in Europe, è ciò che in letteratura nasce con Pamela. Or Virtue Rewarded, il romanzo epistolare di Samuel Richardson del 1740, in cui l’amore per una quindicenne di umile origini e il “ricco Signor B.” rompe le convenzioni e le convinzioni. La sposina cede ai sentimenti che sperimenta e suscita, fino alle prima notte di nozze che sancirà la sua ascesa sociale. La morale di Richardson è rassicurante: se ci vuole un romanzo per raccontare la storia di una poverella che sposa un nobile è perché le poverelle non possono sposare un nobile, pena disordine e infelicità. Ma Pamela apre un primo squarcio sull’amore. Quel sentimento non è più il nemico del matrimonio o la sua tomba, ma ciò che lo fonda, come dimostra il dilagare delle convivenze e la stessa tendenza a creare figure giuridiche intermedie per puntare il cursore della relazione in interstizi sempre più stretti. Ma siccome era stata la chiesa ad aver sancito l’ingresso dell’autorità e l’eclisse dell’amore dal discorso, tocca a lei invertire i termini e dire che il desiderio del dono e il dono del desiderio bastano a fare di una vita monca una vita piena. In un certo senso la chiesa di Francesco l’ha fatto, con i due sinodi e una esortazione che si chiama “Amoris laetitia”. Ma anche questa transizione incontra resistenze che impediscono di interrogarsi non su diritti e allarmi astratti, ma su come ogni amore nella eguaglianza possa essere riconosciuto come un bene per tutti, dopo quattrocento anni di storia nei quali il rigorismo matrimoniale ha tenuto vivo ciò che voleva combattere, rendendolo più interessante di ciò che voleva difendere.