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 2016  agosto 30 Martedì calendario

Il boom dell’Africa è già finito. Ecco perché

I giovani executives della classe media di Lusaka ci avevano fatto la bocca: per chi era approdato ad un ruolo di dirigente nelle miniere di rame dello Zambia c’era la seconda macchina nel garage di casa, mentre, in ufficio, si passava da una segretaria a due, fino a cinque. Adesso, è già un colpo di fortuna se l’ufficio c’è ancora. È andata peggio agli imprenditori rampanti della costa nigeriana, impegnati a ritagliarsi la loro fetta del boom del petrolio: il boom, adesso, è quello dei debiti. L’Africa a Sud del Sahara è l’ultima vittima della grande stagnazione mondiale: la lunga rincorsa del continente rimasto più indietro nella gara dello sviluppo si è fermata. La frenata è brusca, per il metro di paesi ai primi passi del progresso economico. Ad inizio 2015, l’Economist scommetteva che l’Africa avrebbe continuato a crescere nell’ordine del 5 per cento, come nel 2014, appena più piano del 5-7 per cento registrato nel decennio d’oro, il primo di questo secolo. Più sobriamente, un anno dopo, l’Ocse riconosceva che lo sviluppo 2015 si era fermato al 3,4 per cento, ma pronosticava un rilancio nel 2016 e nel 2017. Adesso, l’Fmi fissa lo sviluppo di quest’anno al 3 per cento e non si avventura oltre il 4 per cento nel 2017. E le medie, come sempre, ingannano: la Nigeria, che nel 2010 cresceva del 10 per cento, quest’anno andrà sotto (meno 1,8 per cento); l’Angola passa dalla doppia cifra al 2,5 per cento; lo Zambia dal 5-10 per cento al 3,4 per cento.
Un collasso. Il McKinsey Global Institute si aspettava che l’espansione della classe media facesse salire la spesa per consumi dagli 860 miliardi di dollari del 2008 a oltre 1.400 miliardi entro il 2020, ma l’obiettivo, oggi, sembra remoto. Non è, però, la cosa più importante. Piuttosto che alle classi medie e alla loro capacità di spesa, l’Europa deve guardare con allarme all’altro capo della scala sociale. Ad una popolazione destinata a raddoppiare entro il 2050: 500 milioni di persone in Nigeria (una su due sotto i 17 anni), 200 milioni in Congo e in Etiopia, per metà ammassate negli slum delle megalopoli. Se l’economia non decolla, questo enorme serbatoio non può che traboccare.
La cattiva notizia è che la frenata era prevedibile, anzi inevitabile, visto quello che è l’economia africana. Nigeria e Angola pagano un prezzo del greggio crollato a 40 dollari al barile, lo Zambia una quotazione del rame dimezzata, il Ghana il calo del cacao. L’idea che l’Africa si stesse affrancando dalla dipendenza dalle materie prime si è rivelata, insomma, quanto meno prematura: tuttora metà dei Paesi africani lega la propria economia allo sfruttamento delle sue risorse naturali. Che scontano il secco rallentamento della Cina, ormai il principale partner commerciale del continente. L’anno scorso, le importazioni cinesi dall’Africa sono cadute del 32 per cento, con il risultato che, in questo momento, Pechino esporta in Africa più di quanto compri.
C’è un altro elemento di fragilità nell’Africa subsahariana. Il tentativo di differenziare l’economia è avvenuto puntando più sulla finanza che sulla industria manifatturiera. Un terzo degli investimenti esteri sono stati diretti al sistema finanziario. In effetti, secondo gli esperti dell’Ocse, una economia africana che colmasse il gap, in materia di strutture finanziarie, con il resto del mondo, ne ricaverebbe un punto e mezzo di Pil in più: l’esplosione del credito via telefonino ne è un assaggio. Ma crescono anche i rischi. Le banche negli anni scorsi hanno goduto di un periodo d’oro, con ricchi profitti: in Ghana, il volume dei prestiti è cresciuto in pochi anni del 30 per cento. La crisi ha voluto dire che quei prestiti sono diventati zavorra. In Ghana, i crediti incagliati sono il 16 per cento del totale, in media, nel resto dell’Africa, sono al 10 per cento, mentre le piccole imprese, in particolare del settore petrolifero, falliscono una dopo l’altra.
La crisi delle materie prime, la paralisi della spesa per infrastrutture, le difficoltà del sistema bancario rischiano di riconsegnare l’Africa all’economia sommersa che, tuttora, vale metà del Pil. Ma non siamo all’anno zero o, più semplicemente, agli anni ’90. Il numero di poveri è sceso sotto il 50 per cento, un africano su sei ha Internet, uno su due il cellulare, quattro bambini su cinque frequentano la scuola elementare. E l’economia, in fondo, non è solo petrolio, rame e banche. Un consorzio europeo ha appena investito nella Beloxxi, una fabbrica di biscotti di Lagos, in Nigeria. E poi c’è il calcio: il terreno su cui il mondo intero si incontra, si riconosce, si misura. Arabi e cinesi si comprano squadre gloriose. Ma anche gli africani fanno capolino. L’Hull City è una squadra piccola ed è appena risalita nella Premier League inglese, ma, da quest’anno e per i prossimi tre ha un nuovo sponsor: Sport Pesa, una società di scommesse via cellulare. Sede sociale: Nairobi, Kenya.