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 2016  agosto 29 Lunedì calendario

Alessandro Profumo ci spiega chi ha distrutto le banche e perché. E poi ci parla della Merkel, «il leader che rischia di passare alla storia per aver rallentato il progetto di Unione europea»

Dottor Profumo, in che condizioni di salute versa il sistema bancario italiano?
«Le condizioni di salute del sistema bancario non possono che riflettere quelle del Paese, il cui Pil in nove anni è calato del 10%. Hanno molto migliorato la loro patrimonializzazione, il che significa i conti: cinque anni fa le banche italiane avevano in pancia come capitale 2,5 euro per ogni 100 prestati, oggi ne hanno 10-12. Certo ci sono ancora elementi di debolezza».
Pensa a Monte dei Paschi?
«Certamente sì, ma bisogna anche andare a verificare i conti di tutti quegli istituti più piccoli che non si sono sottoposti agli stress test».
Il correntista può fidarsi più delle grandi banche o di quelle locali?
«Non è una questione di dimensioni, ma di qualità di gestione. Tutte le banche che hanno avuto problemi sono state male amministrate».
Renzi ha fatto un errore politico o economico a non salvare gli obbligazionisti di Etruria e compagnia?
«Non ha fatto errori, non poteva salvarli perché avrebbe violato la legge, che però non era giusta».
E gli obbligazionisti di Monte dei Paschi possono stare tranquilli?
«Credo che si salverà. Non può non salvarsi, le conseguenze sarebbero tragiche per l’Italia e per l’Europa».
Il titolo però non vale più nulla...
«Del titolo non parlo, non sarebbe giusto. Mps con l’aumento di capitale varrà 5 miliardi con un patrimonio netto doppio, il suo problema principale è trovare un compratore. La banca ultimamente è stata ben gestita e ora è sana, a parte i 47 miliardi di crediti non esigibili, che però finiscono in gran parte in pancia alla bad bank».
Ha detto poco. Ma al piano di rilancio ci crede?
«Portarlo a termine con successo è molto difficile. Ma certo l’amministratore Viola è la persona più indicata per farlo».
Attualmente però è indagato, con lei, per false comunicazioni e manipolazione di mercato...
«Sono tranquillo sia per me che per lui e ho fiducia nei giudici. Certo, attualmente Viola è sottoposto a una forte pressione esterna. Mps è appetibile e desiderata da molti soggetti».
Perché il piano Passera per la banca non è stato neppure preso in considerazione?
«Passera è arrivato fuori tempo massimo».
Lei è stato presidente di Mps, la banca più vecchia d’Europa; chi l’ha distrutta?
«L’ha distrutta un blocco di potere senese autoreferenziale nel quale le appartenenze, per la verità abbastanza trasversali, contavano di più della competenza e dei valori».
E Veneto Banca, 130mila famiglie rovinate, in pratica la provincia di Vicenza, chi l’ha distrutta?
«Vale la regola generale, le banche nei guai pagano anni di cattiva amministrazione. Posso dirle che in Mps ho imposto modifiche allo statuto importanti per migliorare la governance: limite d’età, massimo tre mandati e alternanza di genere uomo-donna. Non per fare la figura del progressista, ma per scardinare i gruppi di potere. In altre banche ci sono stati presidenti per 25 anni...».
Renzi dice che le banche in Italia sono troppe. È d’accordo?
«Quando si parla di banche ormai tutti sono preoccupati solo della loro solidità, ma le banche sono imprese, dovrebbero badare alla redditività anche. In questo quadro economico, per essere redditizie è inevitabile che facciano fusioni o aggregazioni, per migliorare la qualità, risparmiare costi e fornire anche altri servizi».
Allora avremo davvero la banca che ti trova la casa, ti prenota le vacanze e ti fa i contratti telefonici?
«È il futuro. La conservazione e la gestione del denaro del cliente restano il core business, ma poi la banca deve allargarsi anche ad altre attività, sfruttando il fatto che conosce i clienti. Se lo fa Facebook, perché non lo possono fare le banche?».
Perché le banche erano un tempio, non un social, ci si entrava con rispetto e in punta di piedi...
«Meglio oggi, dove ci si entra senza timori reverenziali. Io sono per la società orizzontale».
Anch’io, ma preferivo entrarci a testa bassa certo che difendessero i miei soldi piuttosto che trattare alla pari ma finire sbancato. Sbaglio?
«Si può trattare il cliente alla pari e conservarne la fiducia, basta saperlo ascoltare e assistere».
Fa differenza per un privato aprire un conto in una banca piuttosto che in un’altra?
«Sì, ormai si parla di banche come di un sistema, ma è sbagliato, le differenze tra gli istituti sono notevoli».
E come faccio a capire dove mi conviene aprire il conto?
«È difficile, bisognerebbe guardare i bilanci, gli assetti societari, la governance».
Si rende conto che è impossibile? E poi non dovrebbe esserci un istituto di vigilanza a garantirmi?
«Consiglio di scegliere la banca che sa stare più vicina al cliente e che più investe sulla sua formazione finanziaria. Va premiato chi fornisce un accesso guidato ai servizi finanziari. Ma la verità è che l’economia bancaria andrebbe insegnata nelle scuole, perché serve. A Siena avevamo organizzato dei corsi di formazione nelle scuole, con i pensionati del Monte che andavano a parlare di scienze bancarie. Un modo per legare la popolazione all’istituto e tenere attaccati gli ex dipendenti, che altrimenti diventano i critici più severi della banca».
Mi parla di banca che deve stare vicina al cliente, ma se le banche continuano a tagliare posti di lavoro come si fa?
«Il sistema è cambiato completamente. Vengono tagliati i posti agli sportelli perché ormai la maggior parte della clientela fa le sue operazioni online e non viene in banca, ma i ruoli di assistenza non vengono tagliati».
Si danno anche cinque anni d’accompagnamento alla pensione pagati all’80% a dipendenti sotto i 60 anni. È normale?
«Questione di riduzione dei costi».
Mi dica: che qualità deve avere un banchiere per essere affidabile?
«Grande competenza specifica e capacità d’ascolto. E poi dev’essere una persona perbene. Io posso aver fatto tanti errori in Unicredit, ma ho sempre messo il cliente prima di tutto».
E che errori ha fatto?
«Questo non glielo dirò mai. Posso dirle che li ho fatti tutti con la mia testa, in buona fede e senza subire influenze esterne».
Entrare in banca spesso mette tristezza, sembrano cattedrali nel deserto: un errore è stato aprire centinaia di filiali oggi semivuote?
«È cambiato il mondo in pochi anni. Internet e la tecnologia hanno reso quasi inutili gli sportelli, e poi la crisi ha ridotto il denaro circolante. Non era possibile prevederlo. Gli sportelli sono stati aperti secondo la vecchia regola del “tante filiali, tanta raccolta”».
Unicredit è stata la prima banca a introdurre in grande stile i derivati in Italia: se ne è pentito, alla luce di quanto accaduto dopo?
«I derivati non vanno criminalizzati. Vanno venduti bene e spiegati bene al cliente, a cui vanno illustrati i rischi. Anche quando si fa un mutuo – a tasso fisso o variabile – si prende un rischio finanziario, come con un derivato. L’importante è scegliere in modo consapevole quello che si fa».
Si sposta sempre di più la responsabilità sui clienti: ma allora lei è favorevole al bail-in, per cui obbligazionisti e correntisti pagano le perdite della loro banca?
«Sono d’accordo con la regola, ma serviva un periodo di acclimatamento. Non è corretto che l’investitore paghi per obbligazioni acquistate 4-5 anni fa, quando la legge sul bail-in non esisteva».
Ma le banche non sono finite gambe all’aria soprattutto perché hanno prestato soldi a chi non era in grado di pagare?
«Sì, certo, ma bisogna decidersi. Sono sicuro che il suo giornale per anni ha accusato le banche di non prestare soldi alle famiglie e agli imprenditori e di soffocare l’economia».
Il problema è però a chi si presta. L’accusa è che molte banche abbiano finanziato imprese per fare favori ai politici locali e garantire loro il consenso: è accaduto questo?
«È senz’altro capitato che le banche sul territorio abbiano svolto talvolta e in parte una funzione di ammortizzatore sociale, sostenendo economie e aziende che andavano male per salvaguardare posti di lavoro. Anche molte sofferenze di Mps sono dovute a finanziamenti a piccole e medie imprese mai restituiti».
Lo trova giusto?
«Se finanzi un’impresa decotta, sbagli; se mandi sul lastrico un tuo cliente che potrebbe farcela e magari dà lavoro ai tuoi correntisti, sbagli. Sono decisioni difficili: il cittadino non vuole che la banca butti via i suoi soldi, ma poi se la banca fa chiudere l’azienda dove lavora suo figlio si lamenta. Con i soldi siamo tutti un po’ irrazionali. Perfino ai tedeschi capita di esserlo».
Questa me la deve spiegare...
«Per esempio nella risposta che l’Europa a guida tedesca ha dato alla crisi. L’austerity a livello europeo è stata una scelta sbagliata, non era la soluzione, dovevamo fare come gli Usa, iniettare denaro per rilanciare l’economia. Possibilmente con denaro europeo e quindi debito europeo».
Ma i tedeschi si opposero...
«Perché l’Italia ha un debito pubblico enorme che i tedeschi non vogliono pagarci. Comprensibile».
La Germania è il nostro euro-rivale?
«Non direi, visto che il 40% delle esportazioni dell’Italia sono proprio verso la Germania».
Però sugli immigrati ci hanno mollato...
«Guardiamo ai numeri: ne accolgono molti più di noi, a milioni».
Confessi, lei ama i tedeschi, d’altronde con Unicredit ha comprato una banca in Germania...
«Ho tentato la sfida di unire la nostra creatività e passionalità alla loro qualità nei processi decisionali e capacità di rispettare le regole (se stanno in Germania, perché hanno paura della sanzione, in Italia invece si comportano esattamente come noi)».
Che giudizio ha della Merkel?
«Rischia di passare alla storia come il leader che ha rallentato il progetto di Unione europea».
Pesantissimo...
«Gli automatismi e la disciplina della società tedesca non consentono loro la minima flessibilità, e se per caso i processi decisionali che hanno innescato sono sbagliati, vanno ciecamente nel fosso perché non sono in grado di correggerli».
Meglio l’eurostrategia di Renzi?
«Servono un sistema fiscale e una difesa unici per tutti i Paesi. L’Ue è da ridisegnare e l’idea di Renzi è più positiva e vincente. È anche un fatto generazionale, per parlare ai nostri figli che non hanno vissuto la guerra e non ne hanno sentito parlare come noi, ci vuole il racconto di Renzi, visto che anche per lui è normale girare l’Europa senza passaporto, non cambiare il denaro a ogni confine e così via».
Se fosse stato amministratore delegato di Deutsche Bank nel 2011 avrebbe venduto 7 miliardi di titoli di Stato italiani dall’oggi al domani malgrado rendessero il 9% l’anno?
«Non credo ai complotti, le dietrologie non mi appartengono. Nel 2011 si temeva che l’Italia potesse saltare, quei 7 miliardi erano soldi dei clienti e Deutsche Bank doveva tutelarli».
È possibile che una decisione simile sia stata presa senza una telefonata a Berlino?
«Io non so com’è andata, ma è possibile. Sono decisioni che l’amministratore delegato prende da solo, consultandosi con la sua cerchia di collaboratori, perché poi è l’unico a rispondere delle conseguenze».
Oggi qual è il male dell’Europa?
«Che non c’è, è un’istituzione intergovernativa, la Commissione è assente, ai vertici europei contano solo i leader di governo e i ministri».
Finché abbiamo Juncker come presidente, e prima di lui Barroso: comprimari, a essere benevoli...
«L’assenza della Commissione Ue e la mancata cessione della sovranità dei Paesi sono i grandi problemi. Se il potere sull’Europa resta ai leader nazionali è difficile progredire. I politici non sempre seguono la razionalità europea, perché presto o tardi devono confrontarsi con l’elettorato nazionale e, consapevolmente o no, sono influenzati dagli umori di chi vota».
L’euro: iattura o benedizione?
«L’euro è il cuore dell’Europa. Se fallisce, l’Unione va a gambe all’aria. Ma il futuro della moneta unica dipende più da valutazioni politiche che dagli andamenti economici. La situazione è molto complicata».
L’euro può fallire?
«Sì, c’è questo rischio. Dal punto di vista giuridico la moneta unica è una via senza ritorno, ma, nei fatti, basta che la Grecia non regga più le condizioni che l’Unione le impone, smetta di ripagare il debito e si sfili dichiarando default ed ecco che l’euro è fallito. E dopo la Grecia potrebbe più facilmente toccare ad altri Paesi, anche all’Italia. Ma è uno scenario catastrofico, di tipo argentino».
Il bazooka di Draghi sembra aver finito le munizioni: anziché far ripartire l’economia contribuisce a creare deflazione...
«Lui ha sempre detto che iniettando denaro nelle banche comprava solo tempo, ma senza interventi e riforme sull’economia reale la leva monetaria non basta. La deflazione non la creano i soldi di Draghi, ma la mancanza di domanda e di crescita. Le banche i soldi per finanziare la ripresa li hanno, ma perché gli imprenditori italiani non investono?».
Perché molti di loro hanno messo da parte abbastanza denaro per vivere di rendita e gli ammortizzatori sociali consentono loro di chiudere e dormire sonni tranquilli?
«Centrato. Le nostre aziende rispetto a quelle tedesche sono sottocapitalizzate. Hanno poco patrimonio, i soldi stanno altrove. Ma questo apre anche un problema di controlli ed evasione fiscale, di tassa di successione e via discorrendo. E poi da che c’è la crisi le imprese hanno investito 100 miliardi in meno in innovazione. Credo che una delle priorità in Italia sia ricreare uno spirito imprenditoriale».
Difficile svilupparlo con la giustizia e la burocrazia che ci ritroviamo, non crede?
«La mia famiglia ha rilevato un’azienda vitivinicola dove mio figlio lavora a tempo pieno, alzandosi all’alba per essere sui campi. Gutturnio e Bonarda. So cosa significa confrontarsi con la burocrazia italiana anche da non banchiere».
Il figlio di un banchiere che anziché fare fortuna all’estero va in campagna, perché?
«Vuol far crescere i figli nel verde. Anche se, come dicevano i nostri vecchi, “la terra è bassa” e lavorarla è fatica. La società contadina poi ha delle regole ferree: il capo è quello che apre per primo la porta al mattino e il rispetto te lo devi guadagnare. Per questo lui alle 6.30 è in piedi. Non è vero che tutti i più bravi se ne vanno, molti giovani vogliono restare in Italia».
L’enorme debito pubblico cresce di ora in ora... È preoccupato?
«Questo governo ha fatto qualcosa, nei limiti del possibile. Abbiamo il surplus primario più alto d’Europa. Il problema vero è la crescita, va aumentato il Pil. La gente parla di spending review, ma poi quando tagli i servizi diventa furibonda, nessuno è disposto a rinunciare al welfare».
La crescita non è soffocata da un carico fiscale eccessivo?
«Prima che eccessivo penso sia mal distribuito. Come con la gestione delle banche, è un problema di controllo e vigilanza. Non possiamo più tollerare i furbi».
Spunta il Profumo politico...
«La politica per me è una passione, ma non una missione. Anni fa ho pensato di tentare l’avventura, perché ritengo la politica un mestiere nobile, ma il discorso non è più attuale».
Perché ha rinunciato?
«Un politico deve raccogliere il consenso e non credo che un banchiere sia la persona più indicata per farlo. E poi il mestiere richiede competenze specifiche, è molto diverso dal lavoro del manager».
Un siluro a Parisi?
«Parisi è stato anche un manager, ma io l’ho conosciuto come capo del Dipartimento di Affari Economici di Palazzo Chigi, e poi è stato direttore generale di Confindustria. Ha ricoperto importanti ruoli istituzionali».
Si augura che ce la faccia a prendere in mano il centrodestra?
«Sì, me lo auguro, perché credo che Parisi possa dare al centrodestra visione internazionale e un forte senso delle istituzioni. Ma il suo compito non è facile perché quell’area è attraversata da interessi contrastanti e sfilacciati che cercheranno di ostacolarlo».
Perché l’Italia non ha mai avuto un vero leader liberale?
«Perché per un leader liberale non ci sono gli elettori. La destra oggi è Salvini e Meloni, che liberali non sono, e neppure lo era Berlusconi. È una questione di numeri».
Lei ha votato alle primarie del Pd: sta con Renzi o con la minoranza bersaniana?
«Per me la politica è valori e progetti, il tifo lo faccio solo per l’Inter, al momento con scarso entusiasmo. D’altronde si inizia da piccoli, stavo a Palermo, era l’Inter di Herrera, eravamo quattro bambini in cortile, giocavamo ognuno con una maglia diversa. A me è toccata quella dell’Inter, sono rimasto fedele ai colori».
Al referendum voterà sì o no?
«Voterò sì, anche se sono un po’ scettico. Apprezzo il monocameralismo, ma non mi piace la selezione dei parlamentari».
Ha cambiato del tutto lavoro...
«Mi sono messo in proprio, sono diventato azionista di una società di intermediazione mobiliare, Equita: finanza applicata all’economia reale, ho cambiato, ma non del tutto».
Cosa fa, per farlo capire ai comuni mortali?
«Assistiamo chi si vuol quotare in Borsa, raccogliamo denaro per finanziare imprese quotate, suggeriamo ai nostri clienti dove e come investire».
Lavoro ce n’è, nonostante tutto gli italiani sono i più grandi risparmiatori al mondo...
«Sì gli italiani hanno più soldi dei tedeschi, e forse anche a questo è dovuta la rivalità. Ma i clienti di Equita sono istituzionali, parlo di fondi. Ognuno deve fare il suo mestiere, se vuole sapere cosa fare dei suoi risparmi deve trovarsi un uomo di fiducia in banca, che poi verrà da noi».
Peccato... Non posso non chiederle della sua liquidazione da 38 milioni di euro riscossa da Unicredit: sono giuste queste cifre?
«Capisco che possano fare impressione ed essere messe in discussione, ma ci sono diversi elementi da tenere ben presenti: se vogliamo parlare di redditi, dobbiamo discutere di equità e distribuzione della ricchezza in modo ampio, non possiamo parlare di una categoria professionale solo in un singolo Paese, e poi dobbiamo vedere i singoli casi. Quello che so per me è che la banca ha rispettato un contratto che mi aveva fatto di sua iniziativa (io non partecipavo alla definizione del mio stipendio e del contratto) e che avevo preso una banca che aveva il 3% del mercato italiano e l’ho lasciata con il 3,5 di quello europeo».
Quanto si ritiene fortunato?
«Molto, ma ho fatto anche gavetta. Mi sono sposato a 19-20 anni con la donna che è ancora mia moglie e abbiamo avuto subito un figlio. Dovevo portare a casa i soldi e mi sono impiegato subito al Banco Lariano, laureandomi alla Bocconi mentre lavoravo. Sono stato lì dieci anni, di soldi ne ho contati tanti allo sportello».
Sarebbe possibile oggi una carriera come la sua?
«Credo di sì. Bisogna essere capaci di farsi avanti e aver voglia di imparare. Al Banco fui io a chiedere di essere spostato perché volevo conoscere la banca da dietro lo sportello. Una volta laureato, sono entrato in McKinsey e da lì la carriera ha avuto una svolta. Ma ho avuto anche momenti difficili. Al Credito Italiano per i primi sei mesi ogni sera quasi piangevo. Lavoravo con gente di vent’anni più di me. Sapevano che sarei diventato il loro capo, mi hanno fatto una guerra... Non mi davano neppure i documenti».
Come ce l’ha fatta?
«Sono serviti i dieci anni di gavetta, hanno capito che non ero un fighetto che veniva da McKinsey ma ero dei loro, che conoscevo il lavoro anche più basso e non mi potevano fregare».
Cos’è stato decisivo per l’ascesa?
«Ho sempre avuto dei capi che mi hanno capito e spinto. Non ho un carattere accomodante, ma ho sempre incontrato sopra di me persone che apprezzavano la personalità e la determinazione. Non a tutti capita. Quando entri in un posto, ti misurano subito per capire se sei uno che abbassa la testa o sei hai idee tue».