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 2016  agosto 29 Lunedì calendario

I Conservatori musicali se la passano molto male

È tutto semplice e logico: non esistono graduatorie, viene indetta una selezione internazionale sulla base dei profili professionali e artistici, il candidato prescelto deve dimostrare di essere in grado di insegnare di fronte ad una commissione che assiste e giudica una lezione su argomenti comunicati al docente 24 ore prima.
Questa è la procedura con cui sono stato scelto nel 2013 dal Royal College of Music di Londra. In Italia, oggi, è impensabile. Purtroppo». Comincia con la testimonianza di Gabriele Ragghianti, contrabassista, docente all’Istituto Boccherini di Lucca, la sua città, e in uno dei più celebri college musicali del mondo, l’inchiesta de «La Stampa» su stato di salute e prospettive dei Conservatori italiani.
In attesa dei regolamenti
I più recenti dati del ministero dell’Istruzione, università e ricerca (Miur) fotografano 49.458 studenti e 7829 docenti. 81 sono le sedi autorizzate a rilasciare diplomi, divise tra 59 Conservatori statali e 22 istituti accreditati. Hanno il compito di insegnare la pratica strumentale, il canto, la composizione. Un mestiere e un’arte insieme, dove tecnica, talento, qualche volta genio, devono trovare un arduo punto di sintesi, che Riccardo Muti definisce così: «Insegnare musica è un lavoro inafferrabile. Bisogna cercare di individuare l’infinito che c’è dietro ai segni scritti, alle note. La musica, come dice Dante nel Paradiso, è rapimento, non comprensione». Da 17 anni i nostri Conservatori sono in attesa: è il 1999 quando viene varata l’ultima riforma, che segue la precedente del 1930, nata già vecchia e autarchica, soprattutto per quanto riguarda i programmi di studio. Ma dal 1999 devono ancora essere emanati i «regolamenti attuativi» che stabiliranno le nuove regole: formare i professionisti di domani, come vorrebbe l’inquadramento dei Conservatori nel comparto dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica del Ministero dell’Istruzione, oppure alfabetizzare una popolazione studentesca alla quale sono offerte pochissime alternative, tra un’oretta di musica alla media inferiore e – dove esistono – i blandi Licei musicali? Curare la base della piramide, o il vertice? Esigere rigore o tollerare la mediocrità? Il Ministero aveva promesso il testo definitivo entro lo scorso luglio, ma ancora non se ne ha traccia.
Sulla carta, tutti e 81 sono eguali. Non è vero, ma – per non scontentare le corporazioni e i loro equilibri – si continua a far finta di credere che lo siano. È un’anomalia senza eguali al mondo: in tutte le altre nazioni, le istituzioni che davvero formano i musicisti si contano sulle dita di una sola mano. «Dopo tutti questi anni, non ho ancora capito cosa siamo. Abbiamo la testa nell’Università, ma le gambe nel sistema dell’istruzione secondaria. Viviamo una fase delicatissima, è più che urgente un riordino, ma la politica non decide», dice Paolo Troncon, lunga esperienza come direttore di Conservatorio, stimato presidente della Conferenza Nazionale dei Direttori di Conservatorio. «Lo spirito della riforma era quello di portare il sistema scolastico italiano al livello dei paesi stranieri, con un’offerta formativa completa. La riforma, però, non è stato completata. L’ha impedito una visione politica incerta e qualche difesa corporativa», concorda Marco Zuccarini, direttore d’orchestra, oggi direttore del Conservatorio di Torino. E precisa: «Il sistema educativo deve essere visto nella sua complessità: vasta diffusione della cultura musicale, ma anche difesa di quella “minoranza silenziosa” che ha il talento per fare questo mestiere, che è un mestiere artigianale, di bottega, nel quale un ragazzo, quando giunge dopo il triennio alla fase conclusiva degli studi, il biennio, deve dedicarsi totalmente alla disciplina che ha scelto. È questo il momento magico e per viverlo bene ci vuole tempo, dedizione, non si possono inseguire mille materie».
Come nelle Università, anche nei Conservatori vige il sistema dei crediti, che ha dato origine a gravi storture, penalizzando, in termini di orario, i corsi principali di strumento e l’insegnamento frontale. Oggi un allievo, per completare il suo monte crediti, può scegliere tra corsi di ear training, espressione corporea, controllo della respirazione, lingua straniera, storiografia musicale, tecniche dell’ufficio stampa, contrattualistica dello spettacolo, management delle istituzioni concertistiche. Ma quando vai a fare un’audizione o partecipi a un concorso, la giuria ti chiede solo una cosa: suonare bene, meglio degli altri. Domenico Turi, pugliese, 29 anni, diplomato in pianoforte, ora alla soglia del diploma in composizione e già compositore in carriera, ha le idee chiare: «Non si può considerare un Conservatorio come un’Università, non ci si può iscrivere a 18 anni e pensare di poter seriamente iniziare a studiare musica a quell’età! Io ho cominciato da bambino al piccolo Conservatorio di Monopoli ed ero iscritto anche alla scuola media annessa, che oggi non esiste più. I Conservatori devono formare musicisti e non dare a molti l’illusione di saper strimpellare. Poi è compito del Paese creare posti di lavoro, incentivare all’ascolto, formare orchestre e non demolirle».
Crollo dell’occupazione
Le orchestre, in Italia, si chiudono più spesso di quanto non si aprano e i posti di lavoro nel settore diminuiscono, come si vede dall’affollamento alle audizioni: 100 domande per un posto di violino di fila alla Scala. I dati relativi all’occupazione non sono confortanti: come certifica un’indagine di Alma Laurea soltanto il 53% dei diplomati del sistema dell’Alta formazione artistica trova un impiego; di questi, il 37% ne cerca uno diverso, più stabile e meglio retribuito. La scuola è ancora il principale datore di lavoro: assorbe, tra contratti a tempo determinato e indeterminato, il 30% dei diplomati.
Una delle ipotesi al vaglio del Ministro Stefania Giannini, del sottosegretario Davide Faraone e del capo dipartimento Marco Mancini, che più da vicino segue la questione, è quella di selezionare alcuni, pochi, Conservatori «superiori», rendendo più selettivo l’ingresso. «Difficile far accettare a un corpo insegnante reclutato su basi “egualitarie” di differenziarsi in Superiori e “Inferiori”, meno che mai se i Superiori dovessero essere tali solo perché dislocati nei Conservatori delle principali città, dove comunque c’è molta spazzatura», riflette Matteo D’Amico, compositore e docente al Conservatorio romano di Santa Cecilia. Su questo punto insiste anche Maria Clara Monetti, pianista, docente a Torino, spesso invitata in giurie internazionali: «Meritocrazia: all’estero si deve meritare una cattedra mostrando ogni due anni la propria attività artistica e i risultati di quella didattica. Qui, siamo legati a vita ad un incarico». Concorda Ragghianti: «La scelta di un insegnante diventa strategica per il successo della scuola, che ha tutto l’interesse ad avere insegnanti di massimo prestigio». Riferendosi alla recente decisione del Ministero di riconoscere all’Accademia pianistica di Imola la possibilità di rilasciare titoli, Paolo Troncon commenta caustico: «Mi sta bene che Imola sia riconosciuta, lo merita. Ma allora io devo poter competere ad armi pari, chiamare al mio Conservatorio i docenti che meritano davvero. Ma questo non avviene, la gara è truccata in partenza.
Reclutamento in tilt
Con la riforma del 1999, il legislatore aveva previsto che venisse ridefinito il sistema di reclutamento, ma non è accaduto. Continuiamo a navigare tra precariato, legge 104 (assistenza ai familiari malati), numero di figli a carico, mille punteggi estranei ad ogni criterio di qualità artistica. «Quando un nostro docente va in pensione- continua Troncon- non siamo liberi di scegliere il successore, dobbiamo pescare, sperando che vada bene, da graduatorie di concorsi vecchi anche di 20 anni e coprire esattamente quella cattedra rimasta vacante: flauto se è flauto, chitarra se è chitarra, anche se avrei magari bisogno di un insegnante di violino in più» Lo stipendio netto varia dai 1500 ai 2500 euro netti al mese. 324 sono le ore di lezione all’anno, divise tra 250 di insegnamento frontale e 74 a «disposizione». Le ore si possono accorpare in due giorni a settimana, oppure in tre giorni ogni due settimane. Molti allievi si lamentano per la mancanza di continuità nel rapporto con il docente.A Matteo D’Amico sta a cuore soprattutto un’altra questione: «L’indispensabile precocità nello studio dello strumento a livello professionale, che non può essere garantita da una struttura didattica dove l’allievo entra dopo l’esame di Maturità. È una presa in giro: questo sistema, con questi tempi, non potrà mai più formare strumentisti professionisti al passo con la concorrenza mondiale». Un tempo esistevano i corsi pre-accademici, rivolti proprio agli allievi più giovani, ma adesso «è stato fatto divieto di ammettere nuovi iscritti a questi corsi che d’ora in poi dovranno essere tenuti da istituti esterni in convenzione con i Conservatori. Questo porterà da un lato al fiorire dell’istruzione musicale privata, dall’altro ad uno scadimento di livello di quella pubblica».
Il nodo dei programmi
Tante ombre, ma anche qualche luce. Dario Oliveri, oggi docente universitario e direttore artistico degli Amici della musica di Palermo, ricorda quando, all’inizio degli anni Novanta, appena diplomato in chitarra, insegnava al Conservatorio di Trapani. «È passato un quarto di secolo e la situazione è senz’altro migliorata: allora, ci si fermava con i programmi all’inizio del Novecento, considerato un periodo trasgressivo. Non si studiavano la musica antica, la contemporanea, il jazz, la musica elettronica: tutte discipline che oggi si insegnano e molti docenti sono più responsabili, anche riguardo la necessità di rapportarsi alle istituzioni musicali del territorio».
Anche Zuccarini sottolinea, tenacemente, gli aspetti positivi: «Molti Conservatori hanno una propria orchestra, possiamo, nei limiti di bilancio, invitare dei docenti per delle masterclass, i nostri diplomati spesso lavorano nelle migliori orchestre internazionali. Cerchiamo la qualità, nonostante i ritardi, i lacci e i lacciuoli imposti dalla politica che non decide».