Il Messaggero, 29 agosto 2016
Rileggere Montaigne oggi
Uno dei maggiori storici del pensiero filosofico rilegge Montaigne e la utilità della sua riflessione sull’essere umano attraverso una ricchissima analisi dei Saggi scritti dopo il suo ritiro nella solitudine nella regione di Bordeaux, interrotta solo dal suo mandato di sindaco della città e dalla sua attività di mediatore politico tra il cattolico Enrico III e il protestante Enrico di Navarra durante le guerre di religione che sconvolsero la Francia di quel tempo. La riflessione di Tullio Gregory svela, nella sua compiutezza, il genio di questo filosofo che può essere considerato a buon diritto l’iniziatore della modernità, ma intesa secondo categorie diverse da quelle positiviste che hanno voluto opporla in maniera antitetica allo spirito religioso.
Montaigne dimostra come l’Umanesimo e il Rinascimento concepiscono la differenziazione rispetto al passato su basi più sottili, paradossalmente ancora più vicine alla nostra epoca in cui sia lo scetticismo sia la fede religiosa si mescolano secondo quella fenomenologia articolata, a tratti subdola e ambigua, che emerge in tutta la sua complessità nei Saggi e che permettono di rileggere Montaigne come un profeta della modernità ancora più lungimirante del semplicistico campione dello scetticismo e del moralismo che ci è stato tramandato.
COMPLESSO
Il Montaigne di Gregory è molto più complesso e per questo molto più vicino a noi, alla mentalità postmoderna. I Saggi intuiscono la relatività dei valori, tornano in modo martellante sulla «intrinseca varietà e diversità che si registra nel mondo degli uomini» messa in evidenza da quella parabola che tra il Quattrocento e il Cinquecento compie la rottura di un sistema cosmologico chiuso, ordinato, organico e coerente fino alla sconfessione della libertà della ricerca. La scoperta dell’America, la fine del modello tolemaico, la lacerazione dell’unità cristiana con la Riforma luterana, le guerre di religione fanno emergere definitivamente una crisi di categorie e di riferimenti davanti alla quale Montaigne non esita a parlare di spettacolo della rovina. Ma la sensazione del crollo generalizzato non preclude una capacità di narrazione che ridisegna l’idea di essere umano, di fede e di ragione proprio attraverso l’abbandono consapevole alla perdita di ogni certezza e a un realismo antropologico radicale. Se Pico della Mirandola nella sua Oratio aveva posto la dignità dell’uomo nel potere divenire angelo o bestia, Montaigne rifiuta ogni tentativo di eschapper à l’homme, di fuggire dall’uomo capace di gioire di questo mondo, felice della sua transitorietà e del verosimile che può attingere. Lo scetticismo non svuota di senso ogni ricerca, ma consolida la sua attività come plaisir à la chasse, permettendo di godere della critica e della discussione, fuori da ogni facile ed estrinseca ipoteca. Anticipando una tendenza molto diffusa nel pensiero contemporaneo, Montaigne parla di debolezza intrinseca della ragione, vede nella certezza assoluta qualcosa di simile alla follia e al delirio di onnipotenza. D’altra parte, Gregory mostra che lo scetticismo non rinnega la fede, ma svela tutti i fariseismi e le strumentalizzazioni della religione compiute dal potere non solo per cinismo, ma perché, come già pensava il Machiavelli dei Discorsi, la religione è «cosa del tutto necessaria a voler mantenere una civiltà» e dunque il nesso tra fede e potere è molto più originario. Da qui emergono le analisi delle strutture di potere che avvicinano Montaigne al suo omonimo contemporaneo Foucault, su cui sarebbe importante una analisi a distanza. Ed emerge anche quella riflessione sul ruolo della fede nello spazio pubblico e sulla contrapposizione tra civiltà e betise (barbarie), oggi quanto mai cruciale e attuale. Lo scetticismo dei Saggi ritrova la forza della ragione al di là delle contrapposizioni politiche e di una religione ideologica che opprime e distrugge la coscienza e la dignità dell’uomo e con essa la sua pretesa di umanità e di divinità.