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 2016  agosto 28 Domenica calendario

Ma Angela Merkel vuole tornare all’Europa di Bismarck?

Sotto l’incalzare delle crisi, l’Ue si sta trasformando da unione sovranazionale di Stati in associazione volontaria di governi, controllata (se non dominata) dal governo dello Stato più grande. Mi spiego perché. Chi dovrebbe decidere cosa fare nei confronti del Regno Unito o come affrontare la crisi migratoria o rilanciare la crescita o come garantire la sicurezza dei cittadini Ue? In teoria, la risposta è semplice: i leader a capo delle istituzioni esecutive comuni (a partire dai presidenti del Consiglio europeo Donald Tusk e della Commissione Jean-Claude Juncker), sotto il controllo delle istituzioni legislative comuni (Europarlamento, Consiglio dei ministri). Quei leader e quelle istituzioni sono legittimati dai Trattati, a loro volta approvati da ogni stato membro dell’Ue. 
In realtà, però, le cose non stanno così. Le decisioni sulle politiche strategiche (quelle connesse alle sovranità nazionali, tra cui la politica economica, la politica della sicurezza, la politica migratoria e dell’ordine interno ovvero quelle sul futuro dell’Ue nel dopo-Brexit) sono promosse dal capo di governo del Paese più grande dell’Ue, il cancelliere tedesco Angela Merkel. Uno sviluppo preoccupante. Non solo perché la legittimità di quest’ultima proviene esclusivamente dalla legge fondamentale (o costituzione) del suo Paese, ma anche perché ciò porta ad uno svuotamento inevitabile delle istituzioni e dei processi decisionali comunitari. 
Vediamo i fatti. Il prossimo 16 settembre si terrà una riunione, informale ma molto importante, dei capi di governo del Consiglio europeo per discutere la posizione che l’Ue dovrà tenere nei confronti del Regno Unito. Tale questione si intreccerà con altri temi cruciali, come la politica migratoria, della sicurezza e della crescita. Bene. Chi ha preso l’iniziativa per preparare quella riunione? Secondo i Trattati spetterebbe farlo a Tusk e a Juncker, operando da Bruxelles come sede delle istituzioni europee. Ma così non è avvenuto. L’iniziativa è stata infatti assunta unilateralmente dal cancelliere tedesco. La settimana che si è appena conclusa ha visto Angela Merkel impegnata in un vero e proprio tour de force politico. Lunedì ha incontrato a Ventotene Renzi e Hollande. Mercoledì i leader dei paesi baltici. Giovedì e venerdì quelli del cosiddetto gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria). Quindi, ha invitato a cena a Berlino i capi di governo dell’Europa settentrionale (Finlandia, Svezia, Danimarca e Olanda). Concludendo infine, sabato, con un incontro, sempre a Berlino, con i leader dell’Europa centrale (Austria, Bulgaria, Croazia e Slovenia). 
Tra i leader che Merkel non ha incontrato ci sono quelli dell’Europa meridionale (Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro e Malta). Ma, forse, nelle intenzioni della leadership tedesca, la loro rappresentanza é stata sub-appaltata a Renzi e Hollande. In tal caso, l’incontro di Ventotene è stato l’occasione per assegnare alla Francia (oltre che all’Italia) un ruolo esclusivamente regionale. Per la Germania, l’Europa del Sud, con le sue debolezze strutturali (politiche ed economiche) e le sue caratteristiche culturali, continua a rappresentare un puzzle difficile da comporre. Meglio lasciare ad altri questo compito. 
Angela Merkel ha così diviso l’Ue in aree regionali, in sezioni sub-continentali, ognuna identificata da richieste specifiche (i baltici vogliono la sicurezza, Visegrad e l’Europa centrale non vogliono i rifugiati, gli europei del Nord vogliono il rigore, gli europei del Sud vogliono la flessibilità). La Germania, invece, ritiene di perseguire un’agenda generale, anche se la sua azione é finalizzata a proteggere i propri interessi nazionali. Fatto si è, però, che la sua agenda viene promossa attraverso un complesso sistema di mediazioni con le esigenze particolari delle varie aree regionali. La Germania è la rete che tiene insieme questo sistema, in cui la divisione tra governi di sinistra e di destra conta sempre di meno, mentre contano le divisioni tra stati ed aree regionali. Bilanciando un’area con un’altra, la leadership tedesca ha così trasferito il centro della decisione politica a Berlino, rendendo marginale Bruxelles. Come il principe Otto von Bismarck era il cancelliere della Prussia ma anche del Secondo Reich tedesco, così la professoressa Angela Merkel è il cancelliere della Germania ma agisce come se fosse anche il presidente dell’Ue. Naturalmente, la sobrietà luterana di Angela Merkel ha nulla da spartire con la durezza imperiale di Otto von Bismarck. Tuttavia la predisposizione della prima a fare emergere la propria forza dalle debolezze altrui era tutt’altro che estranea anche al secondo. 
Il punto è che tale sviluppo preoccupante dell’Ue nasce da un suo deficit istituzionale, non già dalla malevolenza teutonica della leadership tedesca. Quando a Maastricht, tra il 1991 e 1992, i governi nazionali furono costretti ad europeizzare le politiche strategiche, lo fecero a condizione di escludere dal processo decisionale le istituzioni comunitarie (come il Parlamento, la Commissione e la stessa Corte di Giustizia). La fine della Guerra Fredda nel 1989 e la riunificazione della Germania nel 1990 avevano imposto un cambiamento radicale della prospettiva integrativa. Oltre al mercato unico (che continuava e continua ad avere una gestione sovranazionale) occorreva coordinare anche le politiche tradizionalmente al cuore delle sovranità nazionali. Ma invece di ricondurre queste ultime al metodo sovranazionale (o comunitario, come lo chiamò Jacques Delors, perché basato sull’interazione orizzontale tra Commissione, Parlamento e Consiglio dei ministri), si decise di gestirle all’interno di un nuovo metodo intergovernativo, in cui le decisioni sono monopolizzate verticalmente dalle istituzioni che rappresentano i governi nazionali (il Consiglio dei ministri e quindi il Consiglio europeo dei capi di governo). 
Molti pensarono (allora) che quelle politiche sarebbero state, prima o poi, ricondotte ad una logica comunitaria. Si sbagliarono. I governi nazionali sono stati tutt’altro che disposti a trasferire la gestione di questioni cruciali per il loro destino elettorale (come la politica fiscale o dei rifugiati o della sicurezza) alle istituzioni comunitarie da loro non controllate, come appunto la Commissione o il Parlamento. Anzi, con le crisi multiple dell’ultimo decennio, il controllo dei governi nazionali sulle politiche strategiche è divenuto ancora più forte. Producendo, però, un risultato paradossale. In condizioni di crisi, i governi nazionali non riescono a prendere decisioni efficaci, perché i loro interessi confliggono e le risorse sono scarse. Di qui l’ascesa della leadership tedesca per supplire alle debolezze intergovernative. Ma la cosa non può funzionare. Tant’è che Angela Merkel ha finito per agire come un ciclista in surplace, che si muove solamente quando la bicicletta sta per cadere (come infatti potrebbe avvenire nel dopo Brexit). Dopo tutto, come si può ragionevolmente pensare che un leader eletto per fare l’interesse del proprio Paese possa anche fare quello europeo? Mentre il mercato unico funziona, le politiche strategiche che sono al centro dei conflitti nazionali sono invece sottoposte a una paralisi ricorrente. Più la paralisi si istituzionalizza, più i cittadini si arrabbiano con l’Europa integrata, finendo per mettere in discussione anche ciò che funziona (come il mercato unico, appunto). Senza capacità di governo sovranazionale, l’Ue non potrà neutralizzare le spinte centrifughe che l’attraversano. Senza un’organizzazione federale, l’Ue non potrà dare risposte differenziate a cittadini di stati membri che sono diversi per interessi e identità. Ecco perché la riforma dei Trattati dovrebbe entrare all’ordine del giorno dell’Ue. Quella riforma è certamente un rischio. Ma qual è l’alternativa alla degenerazione intergovernativa dell’Ue?