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 2016  agosto 28 Domenica calendario

«AAA. Allentamento quantitativo offresi»

«AAA. Allentamento quantitavo offresi». Il cartello farebbe bella mostra di sé all’ingresso di diverse banche centrali. Le politiche monetarie non convenzionali, infatti, rimangono molto diffuse. Certo: la Fed pare pronta all’ulteriore stretta. Tuttavia, altri istituti centrali sono sulla strada opposta: dalla Bank of Japan fino alla Bce. La stessa Bank of England, in funzione anti-Brexit, è tornata sui suoi passi. 
In un simile contesto il signor Rossi domanda: queste politiche sono realmente efficaci? La risposta è articolata. In primis, va ricordato, è fondamentale il contesto in cui si agisce. Cioè: prima di promuovere o bocciare la politica monetaria deve considerarsi l’habitat socio-economico in cui viene dispiegata. 
Ciò premesso, alcune considerazioni possono effettuarsi. Partiamo da Eurolandia. La Banca centrale europea, dai tempi della crisi sui debiti sovrani, ha giocato diverse carte. Non solo il taglio del costo del denaro o l’erogazione di prestiti a tassi agevolati (Tltro). Bensì anche la «verbal guidance» che, nella sua forma più estrema, si è concretizzata nel «Whatever it takes» di Mario Draghi. Una dichiarazione, il 22 luglio del 2012, la cui efficacia è stata maggiore di tante concrete strategie monetarie. Nel recente passato, però, la Bce ha dato il «la» al vero Qe. Ad inizio 2015 ha annunciato l’avvio in marzo del programma d’acquisto di titoli di Stato. Un progetto (ad oggi comprensivo di altri asset e del valore mensile di 80 miliardi) che, in continuità con le mosse precedenti, punta a dare gas all’economia essenzialmente attraverso tre canali. 
Il primo è il calo dei rendimenti dei governativi a lunga scadenza. In questo modo, oltre a mantenere basso lo stress sui debiti pubblici, da un lato le imprese sono indotte ad investire; dall’altro gli operatori vengono spinti verso asset a maggiore rendimento (azioni). La seconda cinghia di trasmissione è il canale del credito. Qui, a ben vedere, la Bce già si era mossa con i prestiti agevolati alle banche da indirizzare alle imprese. E, però, indurre gli acquisti sui corporate bond, con il conseguente calo dei tassi, è un modo (di nuovo) per sostenere i prestiti alle aziende. Infine il terzo canale: il cambio valutario. L’effetto deflattivo del Qe spinge l’euro verso il basso, aiutando l’export. 
Detto dei mezzi, l’obiettivo di spingere l’economia è stato raggiunto? I risultati sono in chiaroscuro. L’attivismo della Bce, in generale, ha evitato il collasso di Eurolandia. E non solo. Il tasso di crescita dei prestiti alle imprese, ad esempio, nel luglio scorso si è attestato all’1,9%. Cioè il rialzo maggiore dall’autunno del 2011. Ciò detto, però, il Pil dell’Eurozona è passato dalla crescita media nei 4 trimestri precedenti al Qe dello 0,9% all’ 1,6%. È sufficiente? Evidentemente no. «Anche perché -ricorda Antonio Cesarano, economista di Mps Capital services -, l’inflazione a 5 anni attesa sul quinquennio successivo è addirittura diminuita». Senza dimenticare poi che l’Euro Stoxx 50, dall’inizio 2015, è sì salito oltre il 9%. E, però, dai massimi di aprile dello scorso anno ha ceduto quasi il 10%. Vale a dire: non c’è stato l’effetto ricchezza conseguente al re-pricing degli asset più rischiosi. Al che viene da chiedersi: perché? La risposta è in una parola: incertezza. Insicurezza che deriva da un mix di cause. In primis la mancanza di una politica economica e sociale unitaria all’interno dell’Unione. Mario Draghi l’ha invocata più volte. I fatti, come si è visto con il limitato piano d’investimenti Junker o la mancata gestione del tema-migranti, mostrano che gli Stati vanno ciascuno per la loro strada. Può obiettarsi: diversi interventi (ad esempio, la vigilanza unica)sono stati realizzati rispetto al sistema bancario.?Vero! Però gli istituti di credito, a torto o ragione, restano una fonte d’incertezza. Per non parlare poi dei continui «batticuore» legati alle tornate elettorali o referendarie. Sia ben chiaro: la democrazia esige la consultazione popolare. Ma la governance dell’Unione dovrebbe «digerirle» senza temere ogni volta l’Armageddon. Ebbene: in un simile contesto si può capire perché il Qe all’europea sia meno efficace, ad esempio, di quello «made in Usa». 
Negli Stati Uniti la Fed è stata affiancata dalle politiche economiche del Governo ( ad esempio, il salvataggio per mano pubblica dell’industria dell’auto). Un’attività che ha permesso alla Riserva federale di incidere maggiormente. Poi, oltre all’indipendenza energetica (con lo shale oil), ha giocato a favore la corsa infinita di Wall Street. Un rialzo dei prezzi degli asset che ha creato nuova ricchezza per famiglie ed imprese. Certo: i problemi non mancano. I salari crescono poco e la forbice tra ricchi e poveri si allarga. Tuttavia, con riferimento al Qe, la maggiore efficacia è innegabile. 
Così come non può negarsi lo scarso impatto delle politiche ultra espansive in Giappone. Di nuovo è rilevante il contesto. Nel Paese del Sol Levante, ad esempio, pesa il debito pubblico (229% del Pil). Oltre al prolungarsi degli interventi straordinari che, via via, ne riduce l’effetto. Senza dimenticare, poi, l’elevata età media della popolazione che, tra le altre cose, è caratterizzata da una minore propensione agli investimenti più rischiosi. E non solo. «L’uscita dal mercato del lavoro -ricorda Luigi Guiso, professore di economia allo Eief – in Giappone è ritardata. Una condizione, di fatto, che limita il trasferimento di competenze sulle nuove tecnologie», evidentemente appannaggio dei più giovani, «all’interno delle imprese». Insomma:di nuovo problemi strutturali rispetto ai quali la politica monetaria può poco.