La Stampa, 28 agosto 2016
La crisi della canzone pop italiana spiegata da Max Pezzali
L’estate 2016 segna il punto più basso nella storia della canzone pop italiana? L’ipotesi lanciata da La Stampa lo scorso 21 agosto, con il conforto del musicologo Gianfranco Salvatore, trova «abbastanza d’accordo» Max Pezzali, uno che da solo o con gli 883 ha fatto la storia del pop italiano.
È appena tornato da Miami: che ci faceva là, in piena estate, un artista pop come lei?
«Una volta d’estate si vendevano i dischi. Sulla strada del mare ci si fermava in autogrill e si acquistava l’album o la compilation che avrebbe segnato la vacanza. C’era il Festivalbar, che non ho mai capito se desse il successo o ne fosse la rappresentazione, ma insomma, funzionava. Oggi l’estate non è più interessante per il mercato, gli album in Italia si fanno uscire in autunno, per la stagione natalizia, o in primavera, quando si è spento l’effetto Sanremo».
Ma il pop è in crisi tutto l’anno.
«È in crisi d’identità. Si fa tattica anziché strategia. Tutti sembrano aver paura di deludere il pubblico che hanno conquistato. E questo non fa bene alle canzoni. Il paradosso del pop è che, sempre rimanendo tale, deve osare. Un po’ di calcolo, di strategia, ci deve essere, ma non la tattica».
Viviamo una crisi di talenti?
«Non credo che dipenda solo dagli artisti o da una loro mancanza di coraggio. L’artista pop può osare solo quando tutti intorno a lui ci credono, dai manager alla casa discografica. Oggi combattiamo contro una logica conservatrice dettata dalla paura. Anche in un ambito come questo, che non c’entra nulla con l’informatica, in Italia manca una mentalità da start-up».
Lei una volta disse che ciò che più l’appassionava era l’idea della canzone pop perfetta.
«Quando si supera un certo numero di album pubblicati e tour portati a termine bisogna soprattutto soddisfare se stessi. Non c’è nulla di male a ripetersi, se è la tua cifra stilistica e se non ti annoi, ma la motivazione più forte, oggi per me, è trovare strade nuove. Per questo, per esempio, ho chiesto a Niccolò Contessa de I Cani di scrivere una canzone con me, Due anime. Volevo togliermi alcuni pregiudizi lavorando con una persona che ha quasi vent’anni meno di me. Il pericolo è il manierismo, bisogna avere il coraggio di andare avanti pur rimanendo dentro il pop. Anche per farsi notare nelle radio di flusso che ci sono oggi».
E poi – cito sempre lei – siamo nell’era di Twitter, tutto si dice in 140 caratteri. E questo cambia anche il pop, vero?
«Oggi tutti noi abbiamo a disposizione 15-20 secondi per farci ascoltare. In 15-20 secondi devono succedere cose che facciano venire voglia di ascoltare ancora. Non c’è più tempo per le canzoni di una volta».
I social network, tra l’altro, hanno cambiato completamente l’idea stessa di pop, il rapporto tra artisti e pubblico.
«Ho letto un’intervista con Katy Perry, che ha 90 milioni di follower su Twitter. Le chiedevano come vivesse la responsabilità che derivava da questi numeri, e lei ha risposto che le sembra di essere in quella scena di Mission: Impossible con i raggi laser, in cui devi fare le contorsioni per non toccarli. Ogni cosa che scrivi rischia di scontentare qualcuno. Ecco, questa paura del dissenso è uno dei grandi problemi della musica pop. È una delle ragioni per cui non si osa più. Si prende troppo sul serio questo mestiere, ma non abbastanza per cambiarlo».
Il viaggio in America è servito a scoprire qualcosa di nuovo?
«Come spesso accade d’estate, ho finito per tornare al passato. Un giorno, guardando in tv un episodio della serie Ray Donovan, molto bella, ho riscoperto Warren Zevon, grande cantautore morto nel 2003, e la sua Desperados Under the Eaves del 1976. Non avevo capito bene che cosa raccontasse, ma mi sono subito reso conto che il testo era fantastico. Accade spesso nel pop: quando un testo è bello si sente, chi canta, lo fa con una convinzione diversa. Ho approfondito, ho studiato, ho letto del motel di Los Angeles in cui è ambientata la canzone. Che è eccezionale, nei talent dovrebbero usarla per spiegare come si scrive. E questo è il bello del pop, apre porte».
In tre minuti racconta storie ed evoca immaginari.
«Il pop deve tornare a essere evocativo. Deve permetterti di aprire un’uscita di sicurezza blindata con la chiave di latta di un cofanetto di caramelle».