la Repubblica, 26 agosto 2016
Stasera la prima di Ancelotti con il Bayern. Ritratto di un uomo sempre giusto
Per concludere le sue vacanze italiane Fausto andrà a trovare l’amico Giovanni Trapattoni a Talamone e gli chiederà: «Come mai Carlo non è ancora venuto a mangiare da me?». La cucina del suo ristorante di Ungererstraße è un must degli italiani nel pallone di passaggio a Monaco di Baviera, Luca Toni incluso. Prima o poi il pur discreto Ancelotti cederà, magari quando a metà settembre il Trap tornerà a Monaco: «Da me non s’ingrassa». E comunque nel vocabolario di Carlo la parola dieta non esiste più. È roba di otto anni fa, forse conseguenza delle valutazioni cui si lasciò andare durante la relazione con Marina Cretu, forse retaggio dei 25 anni di matrimonio con Luisa. Si racconta che al Chelsea smaltire chili e smaltire Mourinho in effetti per un po’ si confusero. Poi Carlo si tolse un peso e non ci pensò più. Adattarsi non è mai stato un problema. Quando circolare liberamente per l’Europa strappando applausi non era ancora diventata la sua “cup of tea”, lo spinse la curiosità. Adesso che naviga verso i sessanta lo protegge l’esperienza. «Non vedo l’ora di cominciare», dice nel suo tedesco in rapida evoluzione a un giorno dal debutto in Bundesliga (alle 20.30 contro il Werder nell’anticipo, tv Fox Sports) sulla panchina del Bayern, dove c’è ancora traccia dei suoi predecessori con la lettera “p”, da Pep al Trap passando per Jupp. Dopo Italia, Inghilterra, Francia e Spagna, punta a vincere nel quinto paese d’élite. A fine luglio casa Ancelotti a Monaco era già pronta: «In albergo mi sento precario». Disagio che tuttavia non traspare mai. Lo raggiunge sua moglie Marianna Barrena McClay, conosciuta a Londra e sposata due anni fa a Vancouver, e il gioco è fatto. L’ancelottizzazione del Bayern si perfeziona col figlio Davide come assistente e col genero Mino Fulco, marito di Katia, come nutrizionista. A Madrid faticarono a digerire la presenza del giovane esperto di masse magre e masse grasse: «Nepotismo?». A Parigi aveva messo in conto di finire per la prima volta in vita sua con un accento: da Carlà a Carlò. Quel gioco di riflessi tra lui e l’allora first lady gli alzava l’umore senza abbassargli il sopracciglio, aumentando la popolarità delle sue cene all’Atelier-Etoile di Joel Robuchon, a due passi dall’Arco di Trionfo, mentre i ragazzi del Psg preferivano l’Aquarium o il 160. Ancelotti ha sempre ispirato una qualche insolita umanità: «Abbiamo ingaggiato Ancelotti perché avevamo bisogno di un uomo dentro il tattico, due persone insieme (alludendo a Mourinho,ndr)», disse il presidente del Real Madrid Florentino Perez la mattina dopo aver travolto proprio il Bayern di Guardiola. Era la semifinale di Champions del 2014. Pochi mesi prima, proprio perché il tattico stava dando inattesi fastidi al palazzo, Perez aveva praticamente deciso di liquidarlo: «Se l’infortunio di Khedira sconvolge la sua esistenza può anche andarsene, io non compro nessuno». Avrebbero vinto insieme la “decima”. Dietro Ancelotti c’è sempre un progetto: il semplice e per questo grande progetto di immaginare un calcio di sana redditività appena sporcato da visioni infantili come il modulo ad albero di Natale. Un calcio in cui la tradizione non desti sospetti passatisti e il futuro non diventi un’ossessione modernista. Sulla tavola di Carlo il brezel convivrà con la pastasciutta di sua sorella Angela, l’unica della famiglia ad essere rimasta a Novi di Modena, terra d’origine degli Ancelotti. Ha vinto tre Champions come Bob Paisley. È sempre l’uomo giusto. La stessa cosa che pensò Angela quando vide suo fratello con Marianna sull’altare: «È l’uomo ideale per lei». E forse lo è anche per l’Allianz Arena.