Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  agosto 25 Giovedì calendario

Parlando con Pippo Delbono di Pina Bausch

Parlando con Pippo Delbono dell’incontro che ha segnato di più la sua vita artistica, quello con Pina Bausch, colpisce il fatto che il regista coniughi al presente i verbi riguardanti la sua “maestra”, scomparsa a 68 anni nel 2009. Pina dice, Pina crea… È come se la leggendaria capofila del teatrodanza europeo, santona della scena di fine Novecento, stesse aleggiando fra di noi: «Pina insegna ad amare il
piacere di perdersi a teatro», osserva Pippo. «Quando ascolti la musica e ti abbandoni, succede la stessa cosa: cade ogni barriera intellettuale. Davanti ai pezzi di Pina perdi rigidità, smarrisci i filtri culturali e ti investono sentimenti che riconosci come tuoi».
Fanciullone curioso pur nella maturità anagrafica (è del ‘59), Delbono esplora il territorio del teatro spinto da una vampa passionale costantemente accesa. Sul palcoscenico la traduce in affreschi dinamici che intessono musiche, immagini, parole e movimenti degli attori, scelti secondo criteri estranei a un’estetica ideale e attenti solo alla sensibilità espressiva. Il suo gruppo, acclamato in Europa, accoglie spesso interpreti “diversi”, con storie difficili alle spalle.
Rammentando i propri inizi, Pippo sostiene che la coreografa-regista tedesca, esangue e austera come una mistica medioevale, fu decisiva per la genesi del suo mondo: «Con i danzatori del suo Tanztheater Wuppertal partecipai per mesi alle improvvisazioni per il montaggio di Ahnen, spettacolo del 1987», riferisce. «Fu anomalo il modo in cui entrai nella compagnia, formata solo da ballerini professionisti. Io ero un’eccezione. Avevo lavorato in Danimarca col gruppo Farfa guidato da Iben Nagel Rasmussen, attrice storica dell’Odin Teatret: una scuola di allenamento fisico micidiale, basata su tecniche di teatro orientale e di acrobatica. Però mi mancava un background di danza istituzionale. Ma il desiderio di lavorare con Pina mi aveva ossessionato al punto da riuscire a farmi prendere».
Da dov’era nata l’ossessione?
«Il primo pezzo di Pina cui mi capita di assistere negli anni Ottanta s’intitola Arien ed è immerso in un acquitrino. Mi conquistano la forza, la libertà e l’assenza di psicologia di quel cosmo liquido, e come un pazzo mi fermo a Wuppertal più di un mese per seguire tutte le repliche, facendomi ospitare da un ballerino in un monolocale. Ero uno sconvoltone ma cercavo una strada, un rigore, un maestro. Tra l’altro ero malato ma ancora non lo sapevo. Solo dopo avrei scoperto di avere l’Aids, da cui curandomi sono sopravvissuto, com’è evidente. A Wuppertal mi viene un herpes a un occhio: è un presagio. Un giorno spiego a Pina quanto mi fa male l’occhio e lei me lo carezza. Poi dice: di spettacoli ne ho tanti, vedine altri. Prendo ad andare in Germania appena posso per conoscere tutte le sue opere. E non avendo mai i soldi per un albergo, salgo sul treno di notte dopo ogni rappresentazione per tornare in Italia».
Com’è passato da spettatore ad attore nel laboratorio del Tanztheater?
«Per essere ammessi alle audizioni di Pina bisogna ballare sequenze della sua versione del Sacre du printemps di Stravinskij: coreografia durissima, impossibile per me. Mi rendo conto che l’unico modo per farmi considerare è mostrarle un mio spettacolo e perciò, nell’87, metto in scena in un teatrino di Wuppertal uno dei miei primi lavori, Il tempo degli assassini, con Pepe Robledo. Vengono a vederci alcuni suoi danzatori ma lei no. Quando sto per perdere le speranze arriva Pina, che terminato il pezzo resta in sala da sola, in attesa. Le domando: posso rimanere con te? E lei mi fa un contratto come attore ospite. Lavoriamo insieme alcuni mesi e concluse le prove mi congeda: sei un creatore, devi fare cose tue».
Come si svolgevano le improvvisazioni da cui Pina Bausch modellava il pezzo?
«Premetto che nell’87, dal momento in cui comincio a lavorare nel gruppo, lei non mi rivolge più la parola. Sono scioccato dai suoi silenzi. Eppure prima era gentile e affettuosa con me. Un giorno Jo Ann Endicott, sua danzatrice storica, mi consola: Pippo non preoccuparti, a me non rivolge la parola da tre anni. Nelle improvvisazioni Pina lancia temi ai danzatori e attende risposte. Propone frasi e immagini, a volte senza logica apparente. Esempi: pregare con le mucche; colore, colore, colore e sotto qualcosa di triste; il paese dove crescono i limoni. Si reagisce con un discorso o la breve messinscena di una situazione o una danza. In Ahnen Pina inserì un mio sogno che le avevo riferito: una notturna partita di pallone in una specie di deserto della Bolivia. Lei raccoglie materiali dagli interpreti per poi plasmarli con un senso compositivo fatto di musica, ritmo, atmosfere. Ogni elemento della vita può entrare in un suo spettacolo».
Ora che è passato il tempo, può riassumerne l’eredità?
«In un periodo in cui era alto l’interesse per il teatro del corpo, Pina ha indicato una dimensione che prescinde dall’analisi di un testo e dalla costruzione di movimenti astratti. Mi ha mostrato come essere libero anche nel non analizzare quel che faccio. Oggi a chi mi chiede: che significa?, posso rispondere: non lo so. Certi viaggi poetici superano il raziocinio. Non ho mai conosciuto uno sguardo tanto femminile e spalancato come il suo, che abbraccia senza pregiudizi. Sto girando un film sui rifugiati e la commozione che mi ispira è magnetica: questa bellezza che parte dal basso l’ho imparata da Pina».
Il suo ultimo ricordo di lei?
«Alla fine stava molto male ma si rifiutava di farsi visitare da un dottore. A Parigi andiamo a cena con i suoi ballerini. Io le siedo accanto, lei comincia a tossire. Le dico vai da un medico e s’inferocisce: questo è un trabocchetto! Trovo il coraggio di sfidarla: uno può decidere di morire, affermo, però va fatto con una risoluzione da guerriero, senza nascondersi nella paura. La rivedo dopo un po’ a Parigi e mi confessa: non ce la faccio più. Ma come, ribatto, sei stata tu a insegnarmi quanto sono belli i corpi non omologati! Sei stata tu a dirmi la verità del gesto! Non puoi mollare. E lei, spiazzandomi, dice sorridendo maliziosa: se quel medico che volevi suggerirmi è un uomo attraente e sensuale portamelo qui, e posso farci un pensierino».

5. Continua