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 2016  agosto 25 Giovedì calendario

Commenti sparsi sul terremoto in Centro Italia

Massimo Gramellini per La StampaI volti delle tragedie si assomigliano tutti: polvere, sangue, paura. Questa suora con la fronte insanguinata e un telefonino attempato nella mano sinistra si chiama Mariana, è albanese, ha 32 anni. Appena i muri della stanza hanno cominciato a crollarle addosso si è nascosta sotto il letto e ha invocato aiuto, fino a quando un ragazzo l’ha tirata fuori in qualche modo dalle macerie del convento di Amatrice che ancora ricoprono tre sue consorelle e quattro ospiti anziani. Si è vestita al buio e a strati, indossando tutto quello che riusciva a recuperare nell’armadio sommerso dai detriti. L’hanno sdraiata sulla strada, accanto alla barella di un ferito più grave che la coperta sottrae all’obiettivo del fotografo, in attesa di correre in ambulanza verso un qualsiasi ospedale rimasto in piedi, dal momento che quello del paese si è sfaldato come neve al sole.La suora insanguinata è un’immagine che evoca giudizi divini o possibili attentati a sfondo religioso, ma qui Dio c’entra poco e le belve del terrorismo per nulla. Questo è un attentato che gli italiani si sono fatti da soli. Ogni cinque anni, puntuale come una ricorrenza sacra, la terra dell’Appennino trema. E ogni cinque anni ci sono quartieri e paesi che crollano. Si piange, si deplora – qualcuno ride pure annusando il profumo degli appalti – e poi si ricomincia come prima, come sempre. Senza mai degnarsi di avviare un programma di rattoppo del territorio, magari copiando Giappone e California, dove i terremoti di magnitudo 6 da tempo non mietono più vittime né fanno squagliare ospedali. Le cronache zampillano di casi umani, soccorritori coraggiosi, volontari commoventi. Nell’emergenza lo Stato esibisce la sua faccia migliore, ieri per la prima volta incarnata alla Protezione Civile da una donna, la sensibile e tosta Immacolata Postiglione, e persino la politica caciarona mostra eccezionalmente uno sguardo grave e responsabile. Ma sulle luci della riscossa, specialità della casa, incombono l’ombra della mancata prevenzione e il solito mantra che accompagna ogni tragedia dell’incuria in Italia: quando la smetteremo di lasciarci sorprendere dal prevedibile?

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Filippo Facci per Libero
La Comunità Europea da quasi vent’anni ci fracassa le scatole con l’obbligo di costose certificazioni di risparmio energetico (per ogni operazione immobiliare, anche minima) ma almeno ha sparpagliato dappertutto incentivi economici: vi siete mai chiesti - domanda - perché viceversa non ha mai mollato un euro per finanziare l’obbligo di certificazione antisismica nelle costruzioni? Neppure nelle zone di rischio di tipo 1? Risposta facile: perché le zone sismiche ci sono solo in Italia e in Grecia, più qualcosa nei Balcani. L’Italia, a parte Sardegna, Pianura Padana e Puglia, è praticamente tutta sismica: tutto il resto d’Europa è a zero rischio. In compenso è terremotato anche il fronte legislativo, da noi: la Lombardia - dove non ci sono terremoti - l’anno scorso ha deciso di passare da zona 3 a zona 2, con spaventosi aggravi burocratici e collaudi statici costosissimi imposti ai privati; ci sono scuole, in compenso, dove l’agibilità manca completamente. La Regione e il Genio civile sono oberati da 7-8 chili di carta per ogni pratica, e gli strutturisti ci lucrano. Nel resto d’Italia è certa solo una cosa: riconvertire o consolidare un’abitazione è complicato e oneroso, e l’Europa intanto se ne fotte e non finanzia nulla. Casa comune? Le nostre però crollano. La Ue fece solo uno studio chiamato Syner-g per mappare la vulnerabilità dei territori: ma è finito nel 2013. L’uscita dall’Europa dell’Italia e della Grecia, di questo passo, sarà garantita geologicamente.

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Dacia Maraini per il Corriere della Sera
A ncora una tragedia della nostra terra inquieta. Ma devo dire che la rabbia supera il dolore. La rabbia al pensiero che questo sfacelo avrebbe potuto essere evitato. Si sa che il nostro è un Paese sismico, si sa che il pericolo delle scosse ci riguarda tutti, dal Sud al Nord. Possibile che non si sia fatto niente per prevenire la catastrofe? Possibile che non si sia costruito con intelligenza, prevedendo i pericoli, con criteri antisismici che ci sono e sono efficacissimi?
Ho vissuto 8 anni in Giappone da bambina e ho subito diversi terremoti, anche terribili, con la terra che si spaccava sotto i piedi. Ma non è mai crollata una casa. Perfino la vecchia costruzione che costituiva il nostro campo di concentramento per italiani contrari al regime fascista è rimasta in piedi nonostante le scosse. Ricordo una volta di avere fatto in volata gli scalini che portavano al piano terra mentre una pioggia di intonaco mi cadeva sulla testa. Ma la struttura ha retto, se no non sarei qui a raccontarlo.
È che il Giappone è un Paese in cui l’interesse pubblico precede, per antica consuetudine etica, quello privato. E i controlli sono rigorosissimi e i cittadini consapevoli e diligenti. Da noi succede esattamente il contrario: l’interesse privato viene sempre prima di quello pubblico. E i costruttori di case, per risparmiare qualche soldo, hanno fabbricato senza tenere conto delle norme di sicurezza antisismiche. Spesso con la connivenza delle autorità locali. Tanto nessuno avrebbe mai controllato.
È una tale pena vedere quei corpi coperti di calce che vengono estratti dalle macerie: corpi vivi e corpi morti. Una pena ascoltare le voci di coloro che sono stati sepolti per ore e che a furia di urlare sono riusciti a farsi sentire e farsi tirare fuori. Ma gli occhi di quei bambini che hanno sentito la morte addosso non si possono dimenticare. Sono occhi attoniti, dilatati dalla paura. Una paura che li segnerà per la vita. Sepolto vivo: l’incubo di tutti i sogni più devastanti. Come i minatori che scavano sottoterra e temono sempre di rimanere chiusi in un tunnel appena scavato, asfissiati dal gas o coperti dalle macerie.
Una terra che conosce da secoli l’orrore della devastazione, della morte per asfissia, e non riesce a darsi delle regole per la costruzione delle sue città, sembra incredibile. Si preferisce rischiare la morte di centinaia di persone, lo strazio di corpi dilaniati, piuttosto che spendere qualcosa in più per mettere in sicurezza gli appartamenti, i palazzi, le scuole, gli ospedali, come abbiamo visto all’Aquila nel 2009.
Mi sono occupata del terremoto del 1915 per ragioni letterarie. Ho letto decine di testimonianze, ho visto le prime fotografie di Avezzano rasa al suolo, ho visto migliaia di corpi allineati sulla neve mentre i salvataggi arrivavano lenti, con i carri tirati dai muli. Le case di Gioia dei Marsi sono crollate tutte. Erano case senza fondamenta, case tirate su alla meglio: pietre incollate con la calce, senza criterio. In tutta la Marsica sono morti in 30 mila. I superstiti sono partiti per l’America, per l’Australia, abbandonando terreni stravolti, case bruciate, animali morti.
Oggi certamente l’assistenza è migliorata. Gli interventi si sono fatti più rapidi e precisi. E poi, come al solito, nei momenti di emergenza, il Paese risponde con generosità e umano senso della solidarietà. Ma i morti sono tanti, troppi. I feriti sbigottiti vengono portati via sotto gli occhi delle telecamere, mentre lo sguardo spazia sulle macerie che ancora sono avvolte in nuvole di polvere. Un Paese che si vuole bene può permettersi di ignorare con tanta disinvoltura un futuro prevedibile? Un Paese che ha cura di se stesso può consentirsi di trascurare un minimo di controllo sulla stabilità delle case che vengono giù, alla prima scossa, come fossero di biscotto? La piccola e bella città di Amatrice è ridotta un cumulo di macerie. Il sindaco chiede aiuto, dice che ci sono ancora molti sepolti sotto le macerie. Ma possibile che si debba intervenire sempre dopo il disastro e mai prima?
Purtroppo, lo sappiamo, questo è il motivo ricorrente del nostro Paese. Tutti generosi e solidali nell’emergenza ma incapaci di prevenire il futuro. Ricordo un episodio fra l’eroico e il grottesco, quando il re d’Italia venne a riverire i morti di Avezzano, nel gennaio del 1915, accompagnato da un corteo di automobili, dopo qualche giorno dal disastro, e don Orione gli chiese di concedere le auto per trasportare i bambini feriti. Il re si guardò intorno e disse che senz’altro avrebbe mandato dei mezzi ma non si potevano sequestrare le auto delle autorità. Don Orione radunò i bambini terremotati e nel momento in cui il re si era allontanato per confabulare con le alte cariche del luogo, cacciò i bambini nelle auto e partì rapido con loro per Roma.
Ripeto: siamo un Paese a forte rischio sismico. Ogni anno siamo funestati da crolli, morti e feriti. Possibile che la memoria non conti proprio niente? Non contano le lezioni durissime che ci ha dato la storia? La furbizia, l’avidità di chi vuole guadagnare sui disastri, sembrano sempre avere la meglio. E ancora una volta ci dobbiamo considerare vinti dall’imprevidenza e dalla cupidigia. Ma anche dalla mancanza di ogni controllo e dall’indifferenza dei cittadini, presi dagli interessi personali e mai attenti al bene comune. Potremo mai cambiare?

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Roberto Saviano per la Repubblica
Non sembri scontato, mai. Non sembri che così debbano andare naturalmente le cose. L’aiuto che sta partendo dalla Sicilia al Piemonte, da italiani e immigrati, verso le zone terremotate dell’Italia centrale è la dimostrazione di un immenso slancio umano. Quell’immeso slancio umano che ancora contraddistingue il nostro Paese. Non accade così ovunque, non accade con così forte istinto. È il nostro patrimonio più prezioso.
Nello straziante scenario fatto di macerie e paura, volontari, poliziotti, vigili del fuoco, ragazzi del servizio civile, semplici cittadini che con pale o a mani nude, senza sosta, con gli occhi e la bocca impastati di polvere, scavano e lottano per la vita sono l’incarnazione della parte migliore dell’Italia. Hanno lasciato il loro posto sicuro per andare a scavare dove ancora ci sono scosse, dove non c’è alcuna sicurezza, dove le loro vite sono in pericolo, perché hanno iniziato a scavare mentre le scosse ancora avvenivano, e tra edifici pericolanti. E non si sentono invincibili, no. E non hanno in spregio le proprie vite, ma così bisogna fare per difendere vite, rischiare, e così stanno facendo. Queste persone rappresentano ciò che siamo e offrono un battito vigoroso al cuore del nostro Paese perduto, spezzato, incapace di dialogare, colmo d’insulti e di sotterfugi, di imbrogli e di imbroglioni. Un Paese che quando è ferito a morte, però, silenzia quasi per miracolo le voci inutili e illumina senza far rumore quelle azioni fondamentali di chi lontano da ogni pubblicità o ricompensa, da ogni tornaconto o calcolo sa mostrare un animo generoso e pieno di empatia. Essere presente, farsi carico dell’emergenza, tendere una mano.
Quando la terra si muove così, tutto cade: crollano i piccoli palazzi e crollano i centri medievali. E di fronte alla tragedia e alla paura, la prima reazione, irrazionale, è puntare subito il dito verso responsabili reali o presunti. Si fanno paragoni, si fanno congetture. Un sisma di magnitudo 6 nel resto d’Europa non avrebbe portato una tale distruzione, dicono, ma forse borghi così antichi anche in Francia o in Grecia o in Spagna sarebbero crollati, anche lì si sarebbero accartocciati come costruzioni di cartapesta. Oppure, allo stesso tempo, guardando i campanili superstiti si potrebbe pensare che siano ancora in piedi perché costruiti con maestria, simboli che attestano quanto fragile sia il cemento armato, quanto fragili siano le autorizzazioni edilizie date in questi paesi, quanto fragili siano le case moderne, quante modifiche siano state apportate ai borghi crollati rispetto alla loro struttura originaria. E prima ancora di aver contato i morti, prima ancora di essere riusciti a estrarre dalle macerie chi ancora respira, si fanno i conti con i danni e si abbandona ogni cautela nell’analisi, lamentando — di pancia — il ritardo nell’arrivo dei soccorsi, la mancanza di preparazione.
Ebbene, è probabile che in fondo sia così: l’Italia è costellata di zone a forte rischio sismico, e forse non ha a disposizione sufficienti risorse per far fronte a qualsiasi terremoto. Eppure è una terra in grado di affrontarli con lo slancio della solidarietà, come è successo in Irpinia, a L’Aquila, in Emilia. La nonna di Arquata che salva i due nipotini portandoli con sé sotto il letto, i racconti di chi si è salvato sotto muri portanti, ci dicono che generazioni e generazioni di italiani hanno saputo colmare la mancanza di mezzi, a volte anche di risorse e di addestramento, con la conoscenza mutuata da altre tragedie e con il gesto volontario. Io vengo dal Sud, una delle tante zone sismiche d’Italia, e so bene che il terremoto uccide due volte: quando devasta il paese portando via vite e storia, e quando devasta l’economia portando finanziamenti, sì, ma troppo spesso tanta corruzione.
Sono tante, quindi, le ragioni per allarmarsi di fronte a un centro Italia completamente trascurato, e di fronte alla consapevolezza che ormai il Belpaese sia esposto non solo ai rischi sismici, ma alla totale mancanza di controllo sulle costruzioni, su quelle esistenti e su quelle di nuova generazione.
Il primo ministro Matteo Renzi si è recato sui luoghi della tragedia, ma è importante che alla presenza istituzionale e di circostanza faccia seguito un’attenzione a quelle terre, che meritano investimenti mirati, e che restano la vera ossatura del nostro Paese. La visita di Silvio Berlusconi a L’Aquila fu una messa in scena corredata da un gran dispendio di risorse: la sua presenza tra i superstiti e le macerie era necessaria per mostrare la vicinanza dello Stato — che nella sostanza si limitò ad osservare la tragedia — ma il risultato non fu altro più che mera propaganda. A oggi, L’Aquila e l’Abruzzo continuano a essere in ginocchio: e le rassicurazioni, le carezze ai pensionati e ai bambini che avevano perso tutto oggi suonano come pugnalate inferte con la lama intinta nel miele.
Quando nel 1980 il presidente Sandro Pertini visitò l’Irpinia a seguito del terremoto che l’aveva devastata e che avrebbe lasciato in eredità un macabro cancro di corruzione, disse: «Qui non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana. Tutte le italiane e gli italiani devono sentirsi mobilitati per andare in aiuto a questi fratelli colpiti dalla sciagura, perché credetemi: il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi». Ecco, la solidarietà che scorre nelle vene di chi sta in fila per donare il sangue, che spinge i volontari a partire per terre che non hanno mai visto o che hanno visto ma in entrambi i casi riconoscono proprie, perché è proprio l’umanità in sofferenza che vogliono aiutare. Questa è l’energia che non fa mancare le forze a chi — l’ha detto anche Renzi — scava da prima dell’alba a mani nude. Ogni persona estratta viva dalle macerie, ogni sfollato ospitato, ogni casa ricostruita è una vittoria italiana. Pronuncio questa parola con pudore e imbarazzo perché rischia un riverbero nazionalista. Eppure lo slancio umano e generoso che ci fu durante il terremoto d’Irpinia, e poi in Abruzzo, prima ancora Sarno e poi ancor prima il Belice, sono tracce che ci ridanno piena cittadinanza italiana. Si è cittadini italiani per attestazione burocratica ma invece ci si sente cittadini italiani quando si partecipa nei gesti e in un percorso di giustizia. L’empatia e lo sforzo solidale in questo momento sono le caratteristiche di questo popolo che aiuta un gruppo fitto di volontari che affronta la sofferenza.
E la tragedia, questa tragedia, fa pensare più forte, con più desiderio e necessità alla felicità. Una felicità che non può sempre essere quella di un momento, quella delle piccole e piccolissime cose (una cena in famiglia, il rosicchiare la crosta di formaggio o una festa sulla spiaggia) ma che deve diventare la felicità di uno sguardo diverso sulle cose, di una spinta diversa ad agire, del puntare a grandi valori, a grandi realizzazioni. Sapere che, ancor prima che si organizzassero gli aiuti, nei Comuni colpiti dal sisma c’erano già volontari pronti ad aiutare, mi fa pensare che, nonostante tutto, esiste ancora una possibilità di giustizia, che viene dalla generosità di queste persone pronte a sopperire agli errori, alle ruberie, alle mancanze, agli abusi e le dimenticanze di decenni di amministrazioni locali e nazionali incapaci e furbe. Ce la faremo, anche stavolta ce la faremo: ce lo stanno insegnando questi uomini e queste donne.

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Giorgio Santilli per Il Sole 24 Ore
«Un Piano di prevenzione da 4 miliardi l’anno per 20 anni, 2 miliardi per l’idrogeologico e 2 per l’antisismico: questo serve». Mauro Grassi, coordinatore della task force per gli interventi antidissesto idrogeologico della Presidenza del Consiglio non ha competenze specifiche sui terremoti ma è uno degli uomini in prima linea di Palazzo Chigi sulla prevenzione territoriale. E dà corpo così a quell’idea di un piano straordinario di investimenti necessari per prevenire e ripartire. «Un piano di investimenti di queste dimensioni, che tenga conto anche di interventi privati incentivati nel settore sismico, è l’unico modo per affrontare il problema superando le difficoltà attuali di finanziamenti scarsi e poco selettivi. In dieci anni si vedrebbero finalmente seri passi avanti, magari introducendo anche quelle forme di assicurazione sugli eventi calamitosi di cui spesso si è parlato; in venti renderemmo il Paese più sicuro e cominceremmo a ridurre sensibilmente quella tassa sulle emergenze che comunque ci costa almeno 5 miliardi l’anno».
Preferisce non fare cifre, ma richiama lo stesso concetto dell’ormai non rinviabile necessità di «politiche di prevenzione e non solo di singole misure» Ermete Realacci, pronto a convocare per l’1 settembre la commissione Ambiente della Camera che presiede per votare - possibilmente all’unanimità come accaduto in passato - una risoluzione che rilanci con la prossima legge di bilancio l’ecobonus del 65% allargato ai lavori di prevenzione antisismica. «Bisogna superare gli attuali limiti di quell’incentivo: va esteso dalla singola unità immobiliare all’intero edificio, va esteso al mondo produttivo e alle pubbliche amministrazioni, bisogna rendere convenienti interventi strutturali e di lungo periodo che superino la logica dei lavori anno per anno, utile per cambiare i serramenti ma non certo per lavori impegnativi come questi».
Un terremoto come quello di ieri è drammatico anche, inevitabilmente, per la fotografia che scatta del Paese mettendo a nudo fragilità territoriali e organizzative. Più di tutti colpisce - e molti analisti lo hanno evidenziato - il rapporto fra la relativamente bassa intensità dei fenomeni sismici (il massimo livello di magnitudo è stato 6) e lo sproporzionato numero di morti e di crolli. Un’edilizia povera che ancora una volta è all’origine di un dramma italiano. Ci si ritrova così anche stavolta a fare la considerazione fatta in occasione di altre tragedie analoghe: se un terremoto non si può prevenire, si possono, però, limitare i danni, in termini di vittime e di danni agli edifici, con una buona politica “lunga” di prevenzione che comporta l’utilizzo organico di un mix di strumenti pubblici e privati. Investimenti di pesante riqualificazione, anzitutto, ma anche norme tecniche chiare per le costruzioni e controlli.
Ancora una volta l’Italia dimostra di saper reagire abbastanza bene alle emergenze, con la enorme solidarietà che arriva dai privati e un modello di Protezione civile fra i meglio organizzati in Europa, ma continua a prestare il fianco scoperto sulla prevenzione antisismica (dove non si sono mai portati a regime interventi avviati in modo frammentario e parziale con il fondo istituito nel 2009) e sulla manutenzione idrogeologica, infrastrutturale e territoriale. Un terremoto non si può evitare, ma si possono evitare molte delle ferite che comporta ai territori colpiti dalle scosse: enorme numero di edifici crollati (non di rado anche di recente costruzione), frane più vaste e profonde del dovuto, crollo di ponti e viadotti, infrastrutture rese inutilizzabili nel momento dell’emergenza, collegamenti insufficienti. E spesso la correlazione fra tutti questi fenomeni è altissima e converge a rendere molto più drammatico il bilancio delle catastrofi.
La conclusione può sembrare una forzatura ma non lo è affatto. La ricetta per uscire dall’emergenza sanguinosa delle catastrofi naturali in Italia è la stessa necessaria per uscire dalla crisi economica e dalla fase di stentata ripresa: rilanciare gli investimenti. Non c’è nessuna forzatura e ormai ne sembra convinto anche il premier Matteo Renzi, che quella sia la strada giusta. L’Italia può ripartire contro vizi “culturali” vecchi e nuovi solo spostando, con l’aiuto di una politica economica solida e costante, risorse verso investimenti capaci di riqualificare, ristrutturare e rilanciare un Paese ancora afflitto da arretratezze non più sostenibili. Il piano di 4 miliardi annui di cui parla Grassi può sembrare una proposta faraonica vecchio stile, ma potrebbe invece diventare uno dei pezzi fondamentali di un piano straordinario di investimenti pubblico-privati fatti per il bene e il futuro dell’Italia (magari con un sostanzioso avallo e contributo Ue).
Non è affatto escluso, quindi, che la prossima legge di bilancio possa portare a quel risultato che Realacci auspica: passare da singole misure scoordinate a una seria politica di prevenzione e di investimento. La differenza sta nella capacità di coordinamento delle misure, nella loro entità, ma anche nel forte segnale politico. Anzi è proprio questa la battaglia che, anche dentro il governo, stanno giocando ministri che da mesi ripetono questo refrain sul bisogno di rilanciare anzitutto gli investimenti, a partire da Pier Carlo Padoan e Graziano Delrio.
D’altra parte, giusto per restare alle detrazioni fiscali Irpef del 65% meglio note come “ecobonus” - che la scorsa legge di stabilità ha allargato agli interventi di prevenzione anti-terremoto nelle zone sismiche 1 e 2 - quello che Realacci ripropone per gli investimenti antisismici, Delrio e il Mef lo stanno mettendo a punto in termini più generali per una politica di riqualificazione energetica dei condomíni e della pubblica amministrazione, con meccanismi di estensione degli interventi sugli interi edifici che permettano di superare una politica che premia solo alcune unità immobiliari e lascia fuori, per esempio, i soggetti fiscalmente incapienti. «Tanto più questo ha senso - dice Realacci - per gli interventi di messa in sicurezza sismica dove io non intervengo, pur magari essendo intenzionato, se nel mio palazzo ci sono altri che non intervengono». Questo spiega perché finora lo strumento non sembra essere decollato (dati ufficiali non ci sono) mentre l’ecobonus, così come per gli incentivi del 50% per le ristrutturazioni, ha avuto un grande successo e grande diffusione per i micorointerventi domestici.
Ovviamente evocare una politica favorevole agli investimenti non significa realizzare investimenti. Qui entriamo in un’altra delle criticità italiane - forse la più grave in assoluto - che consiste nel non riuscire a cantierizzare quel che si programma e spesso si finanzia pure. Groviglio normativo, procedure estenuanti, frammentazione di competenze, inerzia delle Regioni sono fenomeni che impediscono di concretizzare risultati anche quando politiche, sia pur fragili, vanno in quella direzione. Certo, da una parte, come dice Realacci, c’è la fragilità di queste politiche, che non pongono con grande prospettiva di scenario e forza politica obiettivi chiari (l’esempio della prevenzione antisismica è calzante). Dall’altra parte, però, anche quando i governi hanno chiaro l’obiettivo e mettono in campo uomini e risorse (si pensi alla fortissima volontà politica espressa dal governo Renzi sul dissesto idrogeologico), i risultati stentano a venire. Mentre i vecchi progetti regionali e nazionali anti-dissesto, precedenti al 2010, che ammontavano a 2,7 miliardi, hanno cominciato a muoversi (sono stati aperti cantieri per quasi 1,5 miliardi) superando parzialmente vecchie incrostazioni, veti, clamorose carenze progettuali e inerzie regionali, il nuovo piano fa fatica a mettersi in movimento. La spesa reale, di cassa, non supera nel 2016 i 50 milioni, contro i 90 preventivati, e conta di arrivare nel 2017 a 150-200 milioni, con una partenza lenta, considerando che l’orizzonte di pianificazione è assai più ambizioso, comunque lo si voglia girare: 30 miliardi di interventi “larghi” individuati dalle Regioni; un primo piano da 7 miliardi da selezionare con le Regioni, finanziato con un prestito Bei da 1,8 miliardi per il centro-nord e dal fondo sviluppo e coesione (Fsc) per i patti al Sud; un piano stralcio per le aree metropolitane di 1,3 miliardi, di cui una prima tranche da 800 milioni che è in fase di decollo ma presenta già 2-3 mesi di ritardo è una seconda tranche da 500 milioni da coprire.
È qui, in fondo, è l’altro compito del governo Renzi dopo aver messo a punto con chiarezza una nuova politica di rilancio degli investimenti, con priorità chiare e forti. Evitare che gli annunci e le cifre restino sulla carta. Dimostrare, dopo gli sblocca-Italia del passato, di saper andare oltre quella coltre di interessi che in Italia frena gli investimenti (e che non di rado gira intorno a vischiosità regionali e locali). Non poco è stato fatto con il decreto regolamentare sui poteri sostitutivi al Presidente del Consiglio, approvato dal Cdm prima della pausa ferragostana. Ora bisogna mettere a regime, con le politiche delle cabine di regia in cui confluiscano anche i ministeri più forti, quegli strumenti che in fase sperimentale già si sono avviati: super commissari, fondi rotativi per garantire la realizzazione di un plafond di progetti esecutivi, “patto” fra Mef, Ragioneria, Palazzo Chigi e singoli ministeri interessati per garantire tutta la cassa che serve (del Fsc ma non solo) per dare continuità nel tempo a interventi pubblici e privati non rituali.

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Vittorio Sgarbi per il Giornale
Non è bastata la Sacra Sindone, conservata in una fedelissima riproduzione del tempo di Federico Borromeo nella chiesa di San Francesco nella frazione di Borgo, a proteggere Arquata del Tronto, al confine tra Marche e Lazio, dall’inspiegabile castigo di Dio rappresentato dalla violenza del terremoto. Arquata è uno dei centri importanti, e ricchi e poetici, che ha avuto il suo patrimonio mutilato. Ma in San Francesco la situazione non appare disperata. All’interno della chiesa vi sono molti altari lignei di teatrale evidenza. Lo spazio è diviso in due navate, con colonne su base quadrata, in conci di pietra, il soffitto è a cassettoni quadrangolari. La cantoria lignea è su una colonna di pietra arenaria con la base ottagonale, in dialogo con il pulpito su colonne tortili, e con il pregevole coro del Quattrocento. Lì ritroveremo, ma non vorremmo attendere, per limitate riparazioni, il tempo infinito che in Emilia e, in particolare a Ferrara, impone la chiusura delle più belle chiese della città. Una vergogna di Stato nella città del ministro per i Beni culturali, per inerzia, per negligenza, che dovremo scongiurare per i borghi meravigliosi feriti in questa occasione, in un territorio fortunatamente limitato. Nella chiesa di San Francesco sulla parete di sinistra, dopo l’altare della Madonna del Rosario vi è un affresco datato 1527, in relazione con la scuola di Cola dell’Amatrice. Pregevoli anche le due statue di San Francesco e di Sant’Antonio, una in terracotta, l’altra in legno. La replica della Sacra Sindone, assai fedele, è in un unico panno tessuto in filo di lino, con trama e ordito perpendicolari, di 440 x 114 cm, ed è documentato dal 1° maggio 1655. Arquata ha anche una fondazione-museo legata a due artisti, Diego Pierpaolo ed Emiliano Albani, che hanno dato il via a una notevole scuola pittorica, la fonofigurazione, fondata sulle relazioni tra musica e pittura.
Poco prima di Arquata venendo da Ascoli, ha subito danni un luogo mirabile, Castel di Luco: una costruzione fortificata, di insolita forma ellittica, sulla sommità di uno sperone di travertino, ora ferita negli interni affrescati. È dolorosa la vanificazione degli sforzi dei proprietari che da anni stavano amorevolmente restaurandola. Ben più grave è la situazione di Amatrice, a soli 18 chilometri da Arquata, ma già in territorio laziale, lungo un percorso che tocca Accumoli, da cui giungono notizie assai poco rassicuranti. Tra le cose notevoli di questo paese, un tempo integro e pittoresco, la più eminente probabilmente era la torre civica, del XII secolo, storico simbolo delle libertà comunali, larga di pianta, quadrata e slanciata, unica in tutta la valle del Tronto. Alla sinistra della torre civica vi era il palazzo del Podestà a blocchi di arenaria squadrati e lisci con due larghe arcate a piano terra, poco lontano dal palazzo Del Guasto dove predicò, tra il 1427 e il 1433, San Bernardino. Di grande importanza, ad Accumoli, sono i palazzi - certamente lesi - Marini, Cappello e Organtini. Il primo esibiva un portale incorniciato da un motivo bugnato a punta di diamante, e da colonne tortili con capitelli ionici. All’interno vi sono notevoli affreschi del primo Seicento sotto soffitti a cassettoni. Il secondo, palazzo Cappello, era un edificio a cinque piani costruito tra il XVI e XVII secolo nel punto più alto di Accumoli, in prossimità della rocca. Si tratta di un notevole palinsesto di parti edificate in tempi distinti: la più antica, cinquecentesca, è in pietra a vista squadrata, con finestre monumentali; i diversi piani sono collegati da una scala elicoidale con gradini in arenaria incastrati nel muro, di progettazione complessa e rara. Bisogna sperare che sia sopravvissuta l’entrata monumentale del palazzo, che portava a un cortile interno con un loggiato su tre ordini di colonne in arenaria con capitelli corinzi ai primi due piani e dorici al terzo. Il terzo palazzo, Organtini, ha grandi sale affrescate con i consueti soffitti a cassettoni.
Infine, Amatrice. Resta eretta come un simbolo la torre civica e spero salve anche le sole opere del grande pittore Cola dell’Amatrice, assai vicino a Raffaello: le due tavole con Giovanni Evangelista e Maddalena e con i santi Pietro e Paolo, a quanto ricordo depositate nel circolo culturale cittadino Nicola Filotesio. Nel centro storico sono cadute le torri campanarie della chiesa di Sant’Agostino, sede della Pinacoteca civica, con un mirabile portale gotico e importanti affreschi precedenti Cola dell’Amatrice, anch’essa colpita. Altri preziosi affreschi appaiono compromessi nelle chiese di Sant’Emidio e di San Francesco. La facciata di quest’ultima, di impianto abruzzese, ha un rosone e un portale gotico di marmo.
Ora la prova più difficile sarà la ricostruzione, che non tradisca la memoria e sia rispettosa delle pietre. Come non è accaduto per molti borghi dimenticati, o orridamente riedificati in anonime new town, intorno all’Aquila. Ma Arquata, Accumoli e Amatrice sono centri essenziali per l’arte italiana. Per il Medioevo e per il Rinascimento. E non dovranno finire come rovine abbandonate, per vergogna di uno Stato impotente davanti a un glorioso e obliato (e, ancor più, obliabile) passato.

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Oscar Giannino per Il Messaggero

Spesso non sono i terremoti a uccidere gli uomini, ma le strutture costruite male dall’uomo. Da questa amara constatazione bisogna ripartire ogni volta che un sisma miete vittime nel nostro paese. Cioè ogni pochissimi anni, visto che siamo un paese interessato da forti rischi sismici, regolarmente studiati e censiti dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. La zona del Lazio, Umbria e Marche colpita ieri dal terremoto di magnitudo 6 rientra nella zona 1 della classificazione sismica, la più alta. Eppure, a ogni schiera di morti è come se la lezione non l’avessimo mai imparata. 
Come ha detto ieri il sismologo Massimo Cocco dell’INVG, in una zona di rischio 1 «tutti gli edifici nuovi devono essere costruiti seguendo regole adeguate, e quelli più vecchi devono essere messi in sicurezza». In questo paese abbiamo perseguito penalmente i sismologi per non aver saputo predire il terremoto dell’Aquila in un processo che ha fatto ridere il mondo, ma alle cose serie documentate da decenni dalla comunità scientifica italiana no, continuiamo a non dare retta. 
L’INSOFFERENZA
Oltre al dolore per le vittime e alla solidarietà per tutti i colpiti, ieri la prima reazione è stata appunto quella dell’insofferenza, nel pensare che paesi del mondo interessati da analoghi rischi tellurici da decenni hanno messo in atto una vera rivoluzione nell’edilizia, mentre da noi ci si continua ad affidare al fato. 
Facciamo un solo esempio, di quanto amara possa essere la conseguenza del nostro incredibile atteggiamento nazionale. Tra il 14 e il 16 aprile scorso la prefettura di Kumamoto in Giappone è stata colpita da un terrificante sciame di scosse telluriche, oltre mille, con le due punte massime a 6,2 e 7 gradi di magnitudo. La prima delle due è del tutto paragonabile a quella che ieri ha devastato Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Una magnitudo 6 equivale, nella scala Richter, all’energia sprigionata dall’esplosione entro 100 km di un milione di tonnellate di tritolo, e per capirci la bomba di Hiroshima equivaleva solo a 13mila tonnellate.
LE SCALE
Una magnitudo 7, poiché le scale sono logaritmiche, equivale invece all’esplosione di 31,6 milioni di tonnellate. Di scosse di magnitudo 6, come quella che ha colpito il centro Italia ieri, se ne registrano in media 120 l’anno sul nostro pianeta. Di magnitudo 7, solo 18. 
L’area interessata dal sisma giapponese ad aprile ha oltre 2 milioni di abitanti, di cui 800mila nel solo capoluogo Kumamoto. Eppure, malgrado l’alta densità antropica e un sisma tanto più potente di quello che ha colpito l’Italia ieri, le vittime giapponesi furono solo 49. Mentre da noi quando scriviamo si parla di almeno 120 vittime: in un’area in cui i residenti complessivi sono poche decine di migliaia, non milioni come in Giappone.
LA RIPROVAZIONE
Eppure ieri è bastato dirlo, che dovremmo fare anche noi col nostro patrimonio edilizio quel che da decenni fanno Giappone e California, per scatenare un’ondata di riprovazione. 
Poi rintuzzata dal parere accreditato di geologi e sismologi, che naturalmente hanno battuto sullo stesso punto. Ma, in generale, la convinzione diffusa resta che no, noi non possiamo credere di poter fare come altri paesi, perché noi abbiamo centri storici e piccoli paesi che sono il frutto di un’evoluzione bimillenaria, mica possiamo radere al suolo e ricostruire come fanno gli altri. 
E’ una convinzione sbagliata. L’alternativa irrazionale è tra radere al suolo e morire sfidando il fato. Quella razionale è tra il mettere finalmente mano a un enorme piano pluriennale di messa in sicurezza del patrimonio esistente sì, anche quello storico, di edifici che hanno uno, due, tre o quattro secoli e di radicale ottemperanza ai criteri antisismici per le costruzioni nuove. In caso contrario, ricordarsi bene che la colpa delle vittime è nostra. 
Anche perché poi non è affatto vero che a crollare e a far vittime siano solo gli edifici in pietra secca. Nei terremoti italiani ogni volta se ne scendono a pezzi i palazzi dello Stato edificati pochi anni o al massimo 2-3 decenni fa. 
LA STRAGE
Ricordate la strage di San Giuliano di Puglia, il 31 ottobre 2002, quando sotto i mattoni della scuola completamente distrutta da una scossa di magnitudo 6 morirono 27 bambini e una maestra? Non vi è tornato in mente, osservando ieri le immagini devastate dell’ospedale di Amatrice, inagibile per le scosse malgrado risalga alla fine degli anni Settanta? E malgrado sia stato destinatario di fondi anche per la messa in sicurezza dopo il sisma dell’Aquila del 2009, fondi naturalmente non spesi e dunque senza realizzare le opere di consolidamento previste?
La strage di San Giuliano ha visto condannati fino alla Cassazione i responsabili: non la natura aspra e matrigna coi suoi terremoti, ma i costruttori e progettisti, il tecnico comunale e il sindaco dell’epoca, che di quella scuola non a norma portavano la colpa. Da allora, c’è stata una radiografia dell’intero sistema di edifici pubblici sanitari, svolta dalla Commissione che ha consegnato i lavori a febbraio 2016, da cui abbiamo appreso che il 75% degli oltre mille presidi sanitari italiani corre il rischio di crollare, in presenza di scosse come quella di ieri. L’ordine dei geologi a ogni inizio anno scolastico ricorda che nel nostro paese sono 24mila le scuole ad alto rischio sismico. Ma nell’osservatorio per l’edilizia scolastica, che esiste da 20 anni, i geologi non ci sono.
L’ordine di grandezza dei danni patiti dall’Italia per eventi sismici e idrogeologici dal dopoguerra a oggi sisma di ieri escluso, ovviamente - è di 250miliardi di euro, e sono sempre i geologi a stimarla. Con oltre 4500 vittime se solo ci limitiamo agli ultimi 40 anni, dal terremoto del Friuli a quello dell’Irpinia, fino all’Aquila nel 2009 e all’Emilia nel 2012. 
E’ verissimo. Per lo Stato la messa in sicurezza di decine di migliaia di propri edifici comporterebbe costi elevati. Molto più elevati ancora i costi poi per l’intervento sul patrimonio immobiliare privato, intervento che dovrebbe essere incentivato da potentissimi sgravi fiscali. Interventi che dovrebbero essere realizzati anche evitando l’azzeramento del valore in portafoglio alle famiglie, e da una politica ossessivamente volta all’assicurazione degli immobili contro il rischio sismico e idrogeologico. Ma quando si ha alle spalle un bilancio di sangue e finanziario così disastroso per non averlo fatto, continuare a non farlo è da imbecilli. 
I TEMPI
Nessuno può immaginare che ci vogliano pochi mesi o un paio d’anni. Dev’essere una scelta decennale, da presentare in Europa come una priorità assoluta. E del resto, l’Unione Europea per prima s’inventò nel 2002 il FSUE, il fondo di solidarietà contro le calamità naturali, a seguito delle inondazioni che allora avevano colpito il centro Europa. E noi, come paese più sismico e a rischio idrogeologico della UE, dobbiamo provarci seriamente, a convincere i partner del fatto che non possiamo continuare a morire per colpa nostra. Il punto è crederci, volerlo intensamente, metterlo al centro dell’agenda nazionale. Non commettiamo ancora una volta l’errore di affidarci ai tarocchi.