Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  agosto 25 Giovedì calendario

Le recensioni di una giovane Dorothy Parker nella Broadway di cento anni fa

Scrittrice, poetessa, giornalista, protagonista della New York intellettuale negli Anni Venti come unico membro femminile della cosiddetta (oggi mitica) Tavola Rotonda dell’Algonquin, morta alcolizzata negli Anni Sessanta e poi riscoperta (anche da noi i suoi racconti raccolti in Tanto vale vivere sono sempre in circolazione), Dorothy Parker fece il suo primo passo verso la fama nel 1918, quando il mondanissimo mensile newyorchese Vanity Fair le affidò la rubrica teatrale. Per la ventiquattrenne Dorothy Rothschild, da poco sposata Parker, redattrice ventiquattrenne e autodidatta già segnalatasi per contributi umoristici e poesie leggere, era un incarico impegnativo, perché prima della grande diffusione di radio e cinema lo spettacolo dal vivo aveva il monopolio dell’intrattenimento nella grande città.

Licenziata da Vanity Fair
A Broadway c’erano 80 teatri attivi e ogni anno si davano mediamente più di 200 produzioni nuove (oggi le sale sono circa 35, e le novità, una quarantina). Nella stagione, che si interrompeva nei mesi caldi – niente aria condizionata! -, il nuovo critico, unico rappresentante del suo sesso nella categoria, vedeva anche otto commedie la settimana, e poi tirava le somme in un unico pezzo molto ampio. Poteva dilungarsi sulle proposte interessanti e liquidare in poche parole quelle meno valide. Di queste ultime non c’era penuria, non per nulla la stragrande maggioranza dei titoli recensiti dalla nostra nei cinque anni che dedicò a tale attività è scomparsa dal repertorio, e la più gran parte degli autori e degli attori nominati non è più nota nemmeno agli specialisti. Tuttavia i sessanta pezzi della futura brillantissima scrittrice, recuperati come Dorothy Parker – Complete Broadway – 1918-1923 a cura di Kevin C. Fitzpatrick (Universe Llc, Bloomington), creano un vivace quadro d’insieme.
Oggi queste cronache di un teatro dimenticato si leggono senza troppo badare al loro oggetto; e, almeno per quanto mi riguarda, non senza un certo segreto disagio. Mi sento un po’ come chi invidia le marachelle di un compagno che non avrebbe il coraggio di emulare: perché personalmente, come critico militante, non sono mai riuscito a sottrarmi ai precetti che mio nonno Silvio d’Amico dava al suo giovane allievo Gianluigi Rondi: mai stroncare, mai fare lo spiritoso a spese dell’avvenimento. Mentre quell’indomito soldo di cacio (non arrivava al metro e sessanta) di Dorothy Parker la pensava diversamente. Lei non aveva remore. Prese in giro perfino i bamboleggiamenti di una superstar come Billie Burke, il cui marito, l’onnipotente impresario Florenz Ziegfeld, la fece prontamente licenziare (persa Vanity Fair, che tirava 60.000 copie, Dorothy passò a Ainslee, che ne tirava 700.000). 
Momenti irresistibili
Stroncava... ed era spiritosa. Molto spiritosa. Dal suo primissimo articolo: «Girl O’ Mine è uno di quegli spettacoli in cui si riesce a fare un bel po’ di lavoro a maglia. Io ho finito un intero calcagno senza che una sola volta quanto avveniva sul palco distraesse la mia attenzione». Di una commedia con Theda Bara: «La pièce arriva dritta da una stagione a Boston dove, si dice, per fermare la folla che tentava di entrare nel teatro è stata chiamata la polizia. Non lo specificano, ma si presume che la folla volesse assalire gli autori». Di un’altra pièce: «Durante la rappresentazione dovevate continuare a ripetervi di stare tranquilli, che non era altro che un orribile sogno, e che ben presto vi sareste svegliati nel vostro letto facendovi una bella risata di tutta la sofferenza passata». E ancora, di un altro lavoro, questo, comico: «La più bella risata che ne abbiamo spremuto è stata pensando a tutti quei presenti che avevano pagato la poltrona dieci dollari».
Sì, ogni tanto nello sterminato repertorio di roba mediocrissima si affaccia qualche grande, O’Neill, Pirandello, i fratelli Barrymore (anche in una Cena delle beffe). Ma i momenti irresistibili sono legati alla descrizione di commedie perdute per sempre, cui la Parker assiste col piglio incredulo e divertito di uno spettatore di oggi che per miracolo si trovi in una serata di quasi un secolo fa. «L’eroina di Her Temporary Husband» (che secondo un frusto meccanismo deve sposarsi, non importa con chi, o perderà un lascito) «decide di impalmare un ricoverato di ospedale per incurabili, uno che morirà entro un tempo ragionevolmente breve, lasciandola libera. Pensate che spasso quando portano l’invalido, tremante e impotente. Ma l’eroe si camuffa in modo tale da ingannare chiunque, tranne il pubblico, e prende il posto dello sposo...».
«Purtroppo il sipario era alzato»
Ed ecco un numero di rivista. «Poi arriva la grande canzone sui baci, in cui elementi del balletto rappresentano diversi tipi di bacio. Prima vengono un ragazzo e una ragazza, in abiti moderni. Poi, abbastanza logicamente, viene il bacio della Guerra Civile, che dà alla dama l’occasione di indossare una deliziosa crinolina. Poi viene il bacio del vampiro, in cui l’elemento attivo è una signora a schiena nuda, in una aderente sottana nera. Infine, tanto per farvi vedere che i responsabili hanno anche un lato serio, viene il bacio della mamma. Costei dà evidentemente il bacio dell’addio al figlio, un ragazzetto in tenuta da Eton, con la cartella. Però la madre secondo le consuete convenzioni della scena è truccata da donna di circa novantatré anni, in abito di taffetà nero, con due care ciocche bianche e una antiquata cuffietta da nonna».
Più incisiva, una recensione di una riga sola. «Purtroppo questa commedia l’ho vista in condizioni spiacevoli. Il sipario era alzato».