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 2016  agosto 23 Martedì calendario

Tuffi e baci. I Giochi visti da Greg Louganis

Greg Louganis è stato l’angelo dei tuffi. Ma per molti anche maledetto: era gay, sieropositivo, scombinato. Il suo volo però era perfetto: il primo 10 della storia. E i suoi tuffi divini: 4 ori olimpici, 2 consecutivi, 5 titoli mondiali (dal 1976 al 1988). Disperato invece il resto: la vita quotidiana (dislessia, bullismo), il sesso (stupro e violenza), la scelta dei partner e la malattia (Hiv). Louganis, 56 anni, capelli argentati, in ottima forma, ha seguito i Giochi a Rio come commentatore televisivo, con suo marito, Johnny Chaillot (si sono sposati nel 2013).
Greg, sono stati Giochi diversi.
«Per le proposte di matrimonio sì. Ho trovato tenerissimo il tuffatore cinese che chiede la mano della sua compagna e anche il marciatore inglese che offre l’anello al suo fidanzato. Un po’ di vita non guasta mai».
Qualcuno critica l’esibizionismo.
«Non mi sembra siano fatti che vengono prima della gara o dello sport, quindi che male c’è? E poi smettiamola con la visione del campione a una dimensione: l’identità di uno sportivo è fatta di tanti aspetti, non si è mai una sola cosa. Troppa vita privata? Per fortuna che c’è anche quella. Non credo che un bacio dato in diretta rovini una medaglia».
Non si va ai Giochi per dichiararsi, è il commento.
«Ci si va per competere. E in gara ci vai con il tuo vissuto: con forze e debolezze, con i tuoi sentimenti. Ma se si riporta che due atlete della squadra inglese di hockey, tra l’altro medaglia d’oro, sono a Rio come coppia legalmente sposata, non credo sia un’invasione di campo. Nascondere la realtà o anche ometterla non è un gran servizio alla società. In questo il tuffatore australiano Matt Mitcham con la sua leggerezza ha veramente cambiato un’epoca dicendo prima dei Giochi di Pechino di essere gay. Comunicò la notizia a un giornalista che gli chiedeva con chi conviveva. In maniera semplice e diretta, senza farne un tema da battaglia legale».
Però nel 2008 la Nbc non inquadrò il suo bacio al compagno.
«Vero. Per paura di perdere gli sponsor. Ma nemmeno ora ha ripreso l’abbraccio dell’inglese Tom Daley al suo fidanzato Lance Black, che sconosciuto proprio non è, visto che è premio Oscar per la sceneggiatura del film Milk. La rete Nbc dopo Pechino si scusò dicendo che aveva fatto male a censurare, ma a Rio hanno rifatto la stessa cosa. Scusarsi dopo è ipocrita, non serve».
Lei però a Seoul nell’88 si nascose.
«Sei mesi prima avevo saputo di essere sieropositivo. A quei tempi la notizia sull’Aids era una sola: si moriva. Ero terrorizzato, la mia omosessualità era un segreto, pagavo cash tutte le medicine, non volevo risultassero sulla mia assicurazione. Avevo paura di perdere gli sponsor, e mi facevo umiliare nei rapporti privati. L’avessi rivelato, la Corea non mi avrebbe fatto partecipare ai Giochi».
In più con la testa colpì il trampolino.
«Al terzo tuffo. L’acqua diventò rossa del mio sangue. Mi diedero cinque punti di sutura. Tornai su e vinsi. Il dottore che mi ricucì non indossava i guanti, mandai il mio allenatore Ron O’Brien a controllare le sue mani. Non aveva ferite, né tagli. Ma ero troppo impaurito per avvisarlo della sieropositività, allora lo sport era tremendo e le medicine che prendevo molto tossiche. Mi dissero che avrei portato vergogna nel mondo dei tuffi. L’annuncio di Magic Johnson sarebbe arrivato nel ’91. Io mi rivelai nel ’95, costretto dal partner di allora che mi ricattava, voleva soldi».
Chi sono gli eroi di Rio?
«Facile dire Phelps. Mi è piaciuto anche Bolt, che ritenevo sbruffone e carnevalesco. L’ho visto interrompere un’intervista perché stavano suonando l’inno americano, e l’ho molto apprezzato. Sulle cose importanti sa essere serio. Ma la vincitrice assoluta è Simone Biles, il suo livello artistico è straordinario. Tutti dicono che la sua è una storia sfortunata: è stata adottata dai nonni, perché sua madre è tossica e alcolizzata. A me sembra una bella storia, anch’io sono stato adottato e vittima di dipendenze. Mio padre samoano aveva la pelle scura, alla fermata dell’autobus venivo deriso da tutti. A scuola ero dislessico, ma non esisteva ancora questa parola, per tutti ero ritardato. Dire i soprusi patiti, non vergognarsi delle proprie difficoltà, può essere da stimolo a chi nelle stesse condizioni pensa di aver subito un torto nella vita. Lo sport serve anche a questo, a saldare conti. Spero che la madre di Simone guarisca, ci vorrà tempo, bisogna avere pazienza».
Nei tuffi i cinesi sono battibili?
«Sì. Sono umani, lo sono sempre stati. Mitcham a Pechino e Boudia a Londra lo hanno dimostrato. Ma non bisogna mai fare uno sbaglio e avere fiducia in sé. Complimenti per le medaglie a Tania Cagnotto, io ho gareggiato con suo papà».
Gli 800 metri di Semenya, Wambui, Niyonsaba sono troppo androgini?
«Sull’identità sessuale c’è ancora ignoranza. Chi può dire se una donna lo è troppo poco? Io stesso ne sapevo poco, ma recitando a teatro a Chicago con Alexandra Billings, transgender, e che ha fatto anche un ruolo nella serie Transparent, mi sono informato. Inutile appiccicare un’etichetta, ogni vita ha una sua originalità. E la sessualità spesso non è determinata dal sesso con cui si nasce, ma da quello che c’è nella nostra testa. Che colpa può avere un’atleta se in lei i livelli di testosterone sono più alti o se ha anomalie genetiche? Ne vogliamo fare un mostro della natura?».
Al traguardo nessuna delle avversarie ha dato loro la mano.
«È triste. Bisogna essere più aperti. E lasciare alle persone la libertà di avere una loro identità. Ognuno ha un suo percorso, fatto anche di sofferenza. Oggi un test sulla femminilità sarebbe discriminatorio. Accettare Semenya significa non considerare quelle come lei poveri reiette. Ve lo dice uno al quale hanno dato del freak per quasi tutta la vita».