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 2016  agosto 23 Martedì calendario

Sul burkini, ma anche sugli schiavi al lavoro nei campi o sui bambini al lavoro in fabbrica

Sul burkini non avrei niente da obiettare (mi danno molto più ai nervi le moto d’acqua che spetazzano lungo il litorale), non fosse che richiama inevitabilmente, anche contro la volontà di chi lo indossa e perfino contro la mia volontà di capire le scelte culturali diverse, la prigionia del corpo femminile. Checché se ne dica, qualunque pretesto (perfino modaiolo, come se fosse una faccenda di stile) si accampi, quel non-costume è simbolicamente micidiale: nel luogo del corpo esposto, della pelle che si affida allo schiaffo benefico del mare, mette in scena il tabù della nudità femminile. Quel tabù è lungamente appartenuto anche alla nostra cultura, specialmente dove la religione esercitava il suo primato morale; ma questo non lo rende meno ingombrante e anzi lo ingigantisce, perché il terrore del sesso ci è familiare, è stato anche nostro e in parte – come dimostra la catena dei femminicidi – lo è ancora. Sappiamo bene cosa significa dire che le donne appartengono ai maschi loro proprietari; e proprio perché lo sappiamo non vogliamo più che accada, allo stesso identico modo con il quale non vorremmo vedere schiavi al lavoro nei campi o bambini al lavoro in fabbrica. Poi accade, e lo sappiamo, che ci siano ancora schiavi nei campi, bambini nelle fabbriche e donne proprietà dei maschi; non possiamo illuderci di alleggerire l’umanità, di un colpo, dalle sue tremende some; possiamo però, almeno, definirle come tali, senza fare finta che sia “normale differenza” quella tra chi può scegliere e chi non può scegliere.