Corriere della Sera, 23 agosto 2016
L’irresistibile fascino dell’enciclopedia
Nel difendere l’enciclopedia come genere letterario, il critico-poeta Franco Fortini ha scritto che essa corre il rischio del conformismo per evitare il rischio della dissoluzione. Rispondeva così al pittore e scrittore visionario, Alberto Savinio, il quale negli anni Quaranta, di fronte all’insoddisfazione per le enciclopedie esistenti, decise di allestirne una a suo uso personale, intitolandola Nuova Enciclopedia, che cominciava con le voci «Abat-jour» e «Abbiategrasso». Ed esprimeva il paradosso del suo scetticismo proprio nella voce «Enciclopedia»: «Oggi non c’è possibilità di saper tutto. Oggi non c’è possibilità di una scienza circolare, di una scienza conchiusa. Oggi non c’è omogeneità di cognizioni. Oggi non c’è affinità spirituale tra le cognizioni. Oggi non c’è comune tendenza delle conoscenze. Oggi c’è profondo squilibrio tra le conoscenze».
Fatto sta che, negandola o esaltandola, gli scrittori sono sempre stati attratti dall’opera-mondo per eccellenza che è l’enciclopedia: «Non c’è al mondo oggetto librario più fascinoso, seducente, innamorativo di una Enciclopedia», ha scritto un altro visionario folle della letteratura, Giorgio Manganelli. Che ne cantò le lodi senza riserve: «Quei compatti volumi in cui l’universo si sbriciola e ricompone, secondo l’incredibile superstizione dell’ordine alfabetico, irretisce irreparabilmente. Andromeda e Alfieri Vittorio, babirussa e Beethoven, giraffa gnosi Granada Guzzi… Come si può non amare una “cosa” del genere?».
Manganelli racconta di aver vissuto l’adolescenza con una Enciclopedia Sonzogno, tantissimi volumi rilegati in nero e oro, «una enciclopedia in perenne abito lungo, da sera, o forse nottambula vestaglia…». Era tutto, anzi il Tutto, dalla voce «A» alla misteriosa voce «Zypaeus».
Il giovane Giorgio leggeva e rileggeva una parola dopo l’altra, amando le splendide carte geografiche ripiegate all’interno. Ed è sempre Manganelli ad ammettere che c’è qualcosa di beneficamente patologico nella libidine enciclopedica: «Vi sono passioni che, congiunte, come nel mio caso, con labilità nervosa, generano stremanti fantasie di onnipotenza». Il mondo esterno non esisteva più, il Mondo era l’Enciclopedia Sonzogno, cioè quella serie di volumi stampati in via Pasquirolo a Milano. Ed era dunque dominabile, anzi «divorabile».
Dizionario dell’esistente e dell’inesistente, repertorio del mondo visibile e invisibile, elenco dei vivi e dei morti, contenitore di tutte le realtà e di tutte le fantasie, riassunto della conoscenza ottenuto con un lavoro umile di raccolta e di selezione. Esattamente il contrario della dissoluzione che è la cifra del nostro tempo digitale, dentro cui forse solo un’enciclopedia fisica, di pagine e pagine cartacee, può ancora ambire a non naufragare.
Per provare quel che provava Manganelli è necessario che l’enciclopedia abbia un corpo sensuale, che soddisfi il tatto e l’olfatto (e persino il gusto, se è possibile «divorarla»): il fascino è nella limitatezza di un solido-fisico che sfida, seleziona e contiene l’illimitatezza della conoscenza, la sua apertura potenzialmente infinita.
La semiotica ha immaginato l’enciclopedia come una rete priva di un centro, in cui ogni punto è connesso con altri punti: l’ambizione di riprodurre quella rete globale, un «Emporio celeste», è stata l’utopia di Borges. Un racconto onirico dello scrittore argentino si apre con una visione enciclopedica: «Nel primo mattino del mio primo giorno ad Atene mi venne dato questo sogno. Di fronte a me, sopra un lungo scaffale, c’era una fila di volumi. Erano quelli dell’Enciclopedia Britannica, uno dei miei paradisi perduti. Presi un volume a caso. Cercai il nome di Coleridge; la voce aveva una fine, ma non principio. Cercai poi la voce Creta; ugualmente concludeva ma non cominciava». Tra il mondo e l’enciclopedia c’è una tale complementarità che quando il narratore si sveglia, si rende conto di essere in Grecia, «dove tutto è cominciato se le cose, a differenza delle voci dell’enciclopedia sognata, hanno un principio».
«Le enciclopedie – disse Borges – sono state la lettura principale della mia vita». E raccontò di quando, timidissimo bambino, entrava alla Biblioteca Nazionale di Buenos Aires e non osando chiedere un libro a un bibliotecario tirava giù dallo scaffale un volume dell’Enciclopedia Britannica e cominciava a sfogliarlo: fu particolarmente felice quando nello stesso tomo, il DR, poté leggere tutto sui Drusi, sul poeta inglese secentesco John Dryden e sui Druidi. «Poi mi venne l’idea di un’enciclopedia di un mondo vero e poi di una, ovviamente molto rigorosa, di un mondo immaginario, dove tutto sarebbe stato collegato (…). Poi ho pensato di scrivere una storia dell’enciclopedia fantastica». Insomma, un’ossessione, per Borges l’enciclopedia è una magnifica (e forse angosciante) ossessione.
Non conosco definizione più illuminante di quella proposta da Manganelli: «Questa enciclopedia – scrisse sfogliando le 1.528 pagine di una Garzantina Universale – è una meraviglia e insieme un giocattolo frastornante».
Una sera, raccontò, ebbe una rivelazione soffermandosi su tre quattro righe in cui si parlava di un territorio autonomo della Kamchatka, dove abitava una popolazione di protosiberiani. «Santo cielo, non ne sapevo nulla». Intanto, giocherellando con le pagine, li aveva persi. «Ho continuato a cercare più sere, affascinato da questi oscuri uomini del gelo e dell’antichità più remota. Non li ho più trovati».
I protosiberiani si erano nascosti, rintanati chissà dove, in quella «mirabile caverna tipografica». Rimase il mistero poetico di quella scomparsa.
Oggi per stanarli basterebbe un Trova in un’edizione digitale. Che noia.