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 2016  agosto 23 Martedì calendario

Sgravi fiscali, frontiera comune e intelligence europea: ecco di cosa dovevano discutere i tre a Ventontene

I tre leader di Ventotene non potevano ignorare che un incontro tripartito, organizzato per affrontare i problemi di una Unione composta da 27 Paesi, presenta sempre qualche rischio. Se i risultati sono mediocri, molti esclusi ne sono probabilmente felici e la palla delle responsabilità torna là dove il gioco è lento e spesso inconcludente. Hollande, Merkel e Renzi hanno quindi un evidente interesse a prendere decisioni che servano a rilanciare l’Europa e a renderla maggiormente credibile. Ma i tre leader, come ha ricordato Franco Venturini sul Corriere del 20 agosto, condividono malauguratamente un’altra caratteristica: ciascuno di essi ha una difficile scadenza elettorale, relativamente vicina, e un interesse apparente a evitare decisioni che possano pregiudicare le sue fortune politiche. Non è un fatto nuovo. Non vi è stato un momento, nella storia della Comunità europea, in cui i governi non fossero costretti a contemperare interessi generali e interessi nazionali. Ma fra le esperienze del passato e quelle del presente esiste una importante differenza.
Sino alla fine del secolo scorso, anche là dove esisteva un forte partito comunista, il confronto elettorale era tra forze politiche che giocavano con le stesse regole, avevano uno stesso retroterra culturale e avrebbero fatto dopo le elezioni, in materia di Europa, politiche molto simili.
Lo abbiamo constatato nel Parlamento di Strasburgo dove l’esistenza di gruppi popolari, socialdemocratici e liberaldemocratici non ha mai impedito all’Assemblea di fare un rispettabile lavoro europeo. Le difficoltà sono cominciate quando abbiamo assistito all’arrivo di gruppi e persone per cui Bruxelles, la Commissione, le altre istituzioni europee e soprattutto la burocrazia comunitaria sarebbero la causa di tutti i nostri mali. Non è vero. Ma questa analisi grossolana di movimenti populisti, spesso guidati da tribuni e demagoghi come Nigel Farage e Marine Le Pen, è piaciuta a una parte dell’elettorato, ha sottratto voti ai partiti tradizionalmente favorevoli alla costruzione europea, li ha preoccupati e intimiditi, li ha resi esitanti e guardinghi.
Non sappiamo ancora se i tre leader di Ventotene riusciranno a convincere il vertice europeo del 16 settembre, a Bratislava, che è necessario superare questo stallo e fare progressi in almeno tre campi: crescita economica e occupazione; accoglienza dei migranti; sicurezza comune. I rimedi e le soluzioni sono già conosciuti. Per la crescita occorrono iniziative, dalle grandi opere agli sgravi fiscali, sostenute dal bilancio dell’Ue. Per la politica dei migranti occorre una vera frontiera comune, presidiata da una polizia europea, e un diritto d’asilo valido per tutti i membri dell’Unione. Per la sicurezza e la minaccia terroristica, occorre una Intelligence europea, capace di gestire collegialmente un comune patrimonio di informazioni. Se qualcuno solleverà obiezioni, i tre di Ventotene potranno esortare gli altri membri dell’Unione a guardarsi attorno. Siamo circondati da aree di crisi: sulla frontiera russo-ucraina, in Turchia, in Siria, in Libia, domani forse in altri Paesi dell’Africa settentrionale e del Levante. Nessuno più di noi europei ha interesse a spegnere questi focolai di guerra, nessuno più di noi dispone dei mezzi e delle competenze necessarie, nessuno più di noi è in grado di offrire a questi Paesi un futuro di sviluppo e di pace. Ma le vicende degli ultimi anni hanno dimostrato che nessuno di noi è in grado di farlo da solo. Chi ci chiede di tornare alle sovranità nazionali ci chiede in realtà di rinunciare ad avere, nelle cose del mondo, un ruolo corrispondente ai nostri interessi e alle nostre ambizioni.
È stato giusto, in questi giorni, ricordare l’importanza del Manifesto di Ventotene nella storia dell’integrazione. Ma esiste un altro ricordo, forse più calzante, a cui dovremmo ispirarci. Nel 1954, dopo il voto contro la Comunità europea di Difesa nel Parlamento francese, i leader e i partiti europeisti furono investiti da una ondata di scetticismo e pessimismo. Reagirono con una conferenza che si tenne a Messina nel giugno 1955 e gettò le basi per la creazione del Mercato Comune a Roma, in Campidoglio, nel 1957.