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 2016  luglio 30 Sabato calendario

La cospirazione dell’arte contemporanea svelata da Vargas Llosa

Per dimenticare la Brexit, sono andato a conoscere il nuovo edificio della Tate Modern a Londra e, come mi aspettavo, ci ho trovato l’apoteosi della civiltà dello spettacolo. Sta avendo un grande successo: nonostante fosse un giorno feriale, era pieno di gente; molti turisti, ma la maggioranza mi è sembrato che fossero inglesi e, soprattutto, giovani. Al terzo piano, in una delle grandi e luminose sale di esposizione, c’era un manico cilindrico, probabilmente di scopa, cui l’artista aveva tolto le setole di saggina o di nylon che l’avevano resa funzionale – come oggetto quotidiano per le faccende domestiche – e lo aveva dipinto minuziosamente di verde, blu, giallo, rosso e nero, in serie che seguivano più o meno questo ordine, ricoprendolo interamente. Intorno al manico, una corda formava un rettangolo che impediva agli spettatori di avvicinarvisi troppo e di toccarlo. Lo stavo contemplando quando mi sono trovato circondato da un gruppo scolastico, bambini e bambine in uniforme blu, indubbiamente rampolli di famiglie benestanti che frequentano una scuola privata e che una gio–
vane professoressa aveva portato lì, per fargli conoscere l’arte moderna.
Lo faceva con entusiasmo, intelligenza, convinzione. Magra, aveva degli occhi molto vivaci e parlava un inglese molto chiaro, magistrale. Sono rimasto lì, in mezzo a quel capannello, fingendomi assorto nella contemplazione del manico di scopa, ma, in realtà, per ascoltarla. Si aiutava con degli appunti che, evidentemente, aveva preparato coscienziosamente. Diceva agli scolari che questa scultura, o oggetto estetico, andava situata, per apprezzarla come si deve, all’interno della cosiddetta arte concettuale. Che cos’è? Un’arte fatta di concetti, di idee, vale a dire di opere che intendono stimolare l’intelligenza e l’immaginazione dello spettatore prima che la sua sensibilità possa veramente godere del dipinto, della scultura o dell’installazione che ha davanti ai suoi occhi. In altre parole, ciò che vedevano lì, appoggiato a quel muro, non era un manico di scopa dipinto con diversi colori, ma un punto di partenza, un trampolino, per arrivare a qualcosa che, adesso, loro stessi dovevano costruire – o forse sarebbe meglio dire scrutare, dissotterrare, rivelare – grazie alla loro fantasia e alla loro inventiva. Vediamo, allora, a chi di loro quell’oggetto suggeriva qualcosa?
I bambini e le bambine, che l’ascoltavano con attenzione, si scambiavano degli sguardi e delle risatine. Il lungo silenzio fu rotto da un bambino lentigginoso e dai capelli rossi con una faccetta furba: «Forse i colori dell’arcobaleno, Miss?». «Bene, perché no?», rispose la Miss,
prudentemente. «Qualche altra impressione o osservazione?». Nuovo silenzio, risatine e gomitate. «Harry Potter volava su un manico di scopa che somigliava a questo», sussurrò una bambina, diventando rossa come un gambero. Ci furono delle sghignazzate, ma la professoressa, gentile e pertinace, li rimproverò: «Tutto è possibile, non ridete. Forse l’artista si è ispirato ai libri di Harry Potter, chissà. Non inventate tanto per inventare, concentratevi sull’oggetto estetico che avete davanti e chiedetevi che cosa nasconda in sé, quali idee e suggestioni ci siano in esso che potreste associare a cose che ricordate, che vi ritornano in mente grazie ad esso».
Poco a poco, i bambini si sono fatti coraggio e hanno cominciato a improvvisare e, mentre alcuni sembravano seguire le istruzioni della Miss e proponevano interpretazioni che avevano qualche relazione con il manico di scopa dipinto, altri giocavano o volevano far ridere i compagni dicendo cose assurde o insolite. Un bambino cicciottello molto serio ha assicurato che quel manico di scopa gli ricordava sua nonna, un’anziana che, nei suoi ultimi anni, si trascinava sempre con l’aiuto di un bastone per non inciampare e cadere. Col passare dei minuti, la mia ammirazione per la professoressa aumentava. Non si è mai abbattuta, non li ha mai presi in giro, né si è arrabbiata nell’udire le sciocchezze che le dicevano. Si rendeva perfettamente conto che, se non tutti, la maggior parte dei suoi alunni aveva ormai dimenticato il manico di scopa e l’arte concettuale, e distraeva la sua noia con un giochetto del quale lei stessa, senza volere, gli aveva dato la chiave. Uno dopo l’altro, con eroica tenacia, ascoltava con interesse tutto, spiritoso o strampalato che fosse, e riportava i bambini all’”oggetto estetico” che avevano davanti, spiegando loro che ora certamente capivano, per tutto quello che stava accadendo, come quel cilindro di legno decorato con quei colori intensi avesse aperto in ognuno di loro una paratia mentale da cui uscivano idee, concetti, che li riportavano al passato per poi farli risalire al presente e attivava la loro creatività rendendoli più permeabili e sensibili all’arte dei nostri giorni. Un’arte che è diametralmente diversa da ciò che era bello o brutto per gli artisti che dipinsero i quadri dei classici che avevano visto pochi mesi prima nella visita alla National Gallery.
Quando la perseverante e simpatica Miss si è portata via i suoi alunni per portarli ad esplorare, in quella stessa sala del nuovo edificio della Tate Mo- dern, un labirinto di stuoie di Cristina Iglesias, sono rimasto ancora per un po’ davanti a questo “oggetto estetico”, il manico di scopa dipinto da un artista il cui nome ho deciso di non scoprire; non ho nemmeno voluto sapere il titolo con cui aveva battezzato la sua “scultura concettuale”. Pensavo alla difficile impresa di quella professoressa: convincere quei bambini che quell’oggetto rappresentava l’arte del nostro tempo, che in quel manico dipinto c’era tutta quella somma di cose che compongono un’opera d’arte genuina: artigianato, abilità, inventiva, originalità, audacia, idee, intuizioni, bellezza. Lei era convinta che fosse così, perché altrimenti le sarebbe stato impossibile affrontare con tanto impegno quello che faceva, parlando ai suoi alunni e ascoltando le loro reazioni con tanta gioia e sicurezza. Non sarebbe stata una crudeltà farle sapere che ciò che faceva, in fondo, con tanta dedizione, ingenuità e innocenza, non era altro che contribuire a un imbroglio monumentale, a una sottilissima congiura poco meno che planetaria su cui gallerie, musei, illustrissimi critici, riviste specializzate, collezionisti, professori, mecenati e mercanti sfacciati si sono messi d’accordo per ingannarsi, ingannare mezzo mondo e, di passaggio, permettere che pochi si riempissero le tasche grazie a una simile impostura? Una straordinaria cospirazione della quale nessuno parla e che, tuttavia, ha trionfato su tutta la linea, tanto da essere irreversibile: nell’arte del nostro tempo, il vero talento e la più cinica furbizia coesistono e si mescolano in modo tale che non è più possibile separare né distinguere l’uno dall’altra. Queste cose sono sempre avvenute, non c’è dubbio, ma allora, oltre a queste, c’erano certe città, certe istituzioni, certi artisti e certi critici che resistevano, che affrontavano la furbizia e la menzogna, le denunciavano e le sconfiggevano. Facevano parte di quell’élite demonizzata che la correttezza politica della nostra epoca ha messo al muro. Che ci abbiamo guadagnato? Quello che ho davanti: un manico di scopa con i colori dell’arcobaleno che assomiglia a quello con cui Harry Potter vola tra le nuvole.
©Mario Vargas Llosa, 2016
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(Traduzione di Luis E. Moriones)