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 2016  luglio 29 Venerdì calendario

L’Isis uccide con le armi europee

Le armi per l’Isis partono anche dal cuore dell’Europa, dai Balcani e dai Paesi che un tempo stavano dietro la Cortina di Ferro. Decine di aerei cargo decollano ogni anno da Belgrado con destinazione Gedda, pieni di kalashnikov, mitragliatrici e relative munizioni, mortai, lanciarazzi e lanciagranate, ma anche di carri armati e artiglieria antiaerea. Molto spesso non si tratta dei dispositivi più moderni. I modelli sono quelli russi di qualche decennio fa, ma questo non ne diminuisce affatto l’efficacia.
Sono almeno 47 i carichi partiti dal maggio 2015 al 4 luglio scorso dalla Serbia verso l’Arabia Saudita e la Giordania, rivela un’inchiesta condotta dal Balkan Investigative Reporting Network in collaborazione con l’Organized Crime and Corruption Reporting Project. Non è da meno la Slovacchia, con dieci voli da Bratislava diretti alle stesse destinazioni e negli Emirati Arabi Uniti, mentre dalla Bulgaria ne sono partiti altri dieci e almeno un altro dalla Repubblica Ceca ha raggiunto la base aerea militare saudita di Al Dhafra. Un Iliushin II-76, l’aereo più utilizzato per questo tipo di consegne, può trasportare fino a 50 tonnellate di materiale, che corrisponde a 16mila Ak47 o a tre milioni di proiettili. Un Boeing 747 è in grado di stivarne anche il doppio. Incrociando i dati con le statistiche di volo ufficiali dell’Unione europa, il team di giornalisti di Birn e Occrp stimano che soltanto da Bulgaria e Slovacchia, dall’estate del 2014, siano giunte in Arabia Saudita e negli Emirati 2.268 tonnellate di armamenti, suddivise in 44 voli.
Inoltre, c’è il traffico marittimo fra i porti del Mar Nero e quelli del Mar Rosso e della Turchia. Seguendo appena tre viaggi, compiuti per conto dell’esercito statunitense, sono venute alla luce ben 4.700 tonnellate di esportazioni militari dal dicembre 2015.
Dal 2012, l’inizio delle Primavere arabe, il fatturato delle forniture belliche del gruppo di Stati di cui fanno parte Croazia, Repubblica Ceca, Serbia, Slovacchia, Bulgaria, Romania, Bosnia-Erzegovina e Montenegro ha superato la quota di un miliardo e duecento milioni di euro. Un business del tutto lecito, se svolto nel rispetto dei trattati internazionali, che impongono al governo acquirente una dichiarazione in cui attesta di essere l’utilizzatore finale. Archiviato il documento, i venditori possono dire di avere la coscienza a posto. Almeno con la legge, che impedisce soltanto le transazioni con Stati sottoposti a embargo. Se poi, dai Paesi «puliti», esce qualcosa, non è affar loro. Il gioco è abbastanza scoperto: le truppe saudite, giordane e turche sono equipaggiate con materiale prodotto in Occidente e non di fabbricazione sovietica, spiega Jeremy Binnie, esperto di armamenti per il settimanale Jane’s Defence, convinto che gran parte di quei carichi «siano destinati ai loro alleati in Siria, nello Yemen e in Libia».
Una conferma autorevole arriva anche da Robert Stephen Ford, già ambasciatore statunitense in Siria fra il 2011 e il 2014, che rivela anche il ruolo centrale della Cia americana, che attraverso due strutture di comando segrete, dette Military Operation Centers (Moc) rifornisce la Giordania e la Turchia, i cui territori sono direttamente confinanti sia con la Siria sia con l’Iraq. Per altre strade, in seguito, una gran parte del materiale bellico finisce nelle mani dei gruppi ribelli islamici, come Ansar al-Sham, Jabhat al-Nusra (che ieri si è scissa da al-Qaeda prendendo il nome di Jabhat Fatah Al-Sham, cioè Fronte per la Conquista del Levante), ma anche nella disponibilità dello Stato islamico, come hanno evidenziato decine di filmati e immagini postate sui social network.
E la libera circolazione, in perfetto stile comunitario, non si ferma lì perché, già alla fine del 2015, un rapporto dell’Europol avvertiva che «alcune armi da fuoco provenienti dai conflitti in Siria, Libia e Mali sono già disponibili sul mercato nero europeo».