Corriere della Sera, 29 luglio 2016
Cara Hillary, non basta essere la più preparata
«Believe me», credetemi, recitato dai vari oratori democratici imitando e distorcendo la voce di Trump, facendolo diventare quasi un muggito. Tra le tante frasi memorabili della convention di Filadelfia – dal «mai visto nella storia un candidato così ignorante e privo di programmi» di Joe Biden a Michael Bloomberg che parla di Trump comedi un bancarottiere seriale, un mascalzone incapaceche confonde la realtà conun reality show – sarà forse questo richiamo continuo alla fiducia cieca che il miliardario populista pretende dagli elettorisenza mai dire come farà a rilanciare l’America, la goccia che scava la roccia della campagna elettorale.
La convention democratica che ha lanciato la candidatura di Hillary Clinton doveva soprattutto cercare di fermare il miliardario repubblicano, arginare la sorprendente popolarità del suo messaggio populista. Stanotte, col suo discorso presidenziale nella Wells Fargo Arena, l’ex segretario di Stato ha cercato di dimostrare di essere la più qualificata per guidare il Paese leader del mondo, come ha «certificato» ieri anche Obama: «Meglio anche di me e di Bill».
Forse non è del tutto vero ma, soprattutto, non basta. Non bastava 8 anni fa quando a Hillary, la più preparata per rispondere a una crisi che scoppia alle 3 di notte in un celebre spot elettorale, gli americani preferirono l’inesperto Barack. E non basta oggi con mezzo Paese in rivolta desideroso solo di cambiamento, a qualunque costo.
Seguire fino all’inferno il pifferaio magico perché tanto peggio di così non può andare? Obama, rivendicando i risultati della sua presidenza, dalla sanità estesa ad altri 21 milioni di cittadini a un’America più dialogante e apprezzata nel mondo, ha detto che seguendo Trump c’è molto da perdere.
Tirando la volata a Hillary, l’altra sera Obama ha anche disegnato in un intervento comunque memorabile – l’ultimo suo grande discorso all’America da presidente – l’eredità politica che lascia al Paese e a un partito che già lo rimpiange. Ma, soprattutto, Barack ha contrapposto l’ottimismo, la voglia di fare e di dialogare, l’inclusività della sua America, al luogo cupo, pessimista, blindato descritto da Donald Trump. «Non è questo il Paese che conosco, quello che ho davanti agli occhi: per Ronald Reagan l’America era una città splendente sulla collina, per Donald Trump la scena di un delitto».
Chi ha seguito, a distanza di una settimana, le «convention» dei due grandi partiti della democrazia americana ha visto rappresentazioni diametralmente opposte della realtà di uno stesso Paese: a Cleveland la rabbia e la paura di un popolo repubblicano che, sobillato dal tycoon che punta alla Casa Bianca, vive nella cupa atmosfera di un assedio. Un popolo assediato dai terroristi, dagli immigrati illegali, dal crimine e anche dagli altri Paesi che, approfittando delle regole di «free trade», rubano posti di lavoro agli Stati Uniti.
I democratici che si sono riuniti a Filadelfia hanno invece puntato tutto sul progresso della società aperta, sull’inclusività e la molteplicità di etnie e religioni come elemento di ricchezza di una comunità più complessa e problematica, ma anche più viva e capace di produrre innovazione, democrazia, uguaglianza e speranza anche per gli altri popoli del mondo. L’ottimismo senza se e senza ma è stato il marchio degli interventi di Barack e Michelle Obama, del suo vice Joe Biden, di Bill Clinton e, stanotte, di Hillary. Che ha insistito soprattutto sull’impegno per la famiglia, l’infanzia, le parti più vulnerabili della società.
Quella dei democratici è certamente una visione più positiva, anche se l’enfasi del presidente Obama sui risultati ottenuti è sicuramente eccessiva: in questi otto anni l’America ha evitato la depressione e, anzi, è cresciuta più dell’Europa, è rimasta all’avanguardia della tecnologia, ha difeso e allargato i diritti civili. Ma, a parte quella (comunque parziale) della sanità, la Casa Bianca non è riuscita a varare nessuna delle riforme delle quali il Paese ha bisogno, né è riuscita a evitare un ulteriore aumento delle sperequazioni nella distribuzione del reddito.
Colpa soprattutto di un Congresso paralizzato che ha bloccato ogni iniziativa di Obama, certo, ma in un sistema presidenziale alla fine è sempre la Casa Bianca a finire sul banco degli imputati. Proprio per questo Barack, oltre a lanciare la candidatura di Hillary, ha insistito sulla necessità di mobilitarsi ovunque, in ogni collegio, per recuperare deputati e senatori, e ridare ai democratici quella maggioranza parlamentare senza la quale anche una Clinton presidente avrà le mani legate.
Davanti alla «convention» Obama ha anche ammesso che i problemi che rischiano di compromettere il grande esperimento della democrazia americana si sono manifestati ben prima dell’arrivo sulla scena di Donald Trump. È tutto cominciato sette anni fa con la nascita dei Tea Party e la radicalizzazione della dialettica politica. «La democrazia non funziona più se ci demonizziamo continuamente l’un l’altro» ha detto Obama, e ha ragione. Ma anche lui (come quasi tutti i leader al governo in America come in Europa) un errore lo sta commettendo. Continua a sostenere, sull’altare di un forzato ottimismo, che i migliori anni sono ancora davanti a noi, anche in termini economici.
Probabilmente non è così, ma per chi fa politica è difficile proporre all’elettorato l’addio all’era di una rapida crescita che non era sostenibile all’infinito e l’accettazione di un «new normal» fatto di aspettative economiche decrescenti e di figli che forse non stanno meglio dei loro padri. Ma se non lo dici e se, anzi, sostieni che il meglio deve ancora venire, ti esponi alla rabbia di chi si sente marginalizzato ed escluso. Un elettorato che se la prende soprattutto con la globalizzazione senza rendersi conto che un problema assai più rilevante è quello dell’automazione dei processi produttivi.
Una rabbia che a Filadelfia ha alimentato la protesta degli attivisti di Sanders ma sulle cui cause, in una «convention» fatta soprattutto di rappresentanti delle categorie protette e dei ceti creativi, alla fine si è discusso assai poco.
Ma ora è il tempo della scelta dei leader, i programmi vanno in secondo piano. E allora, insieme alle parole, a convincere gli americani saranno forse le immagini dei momenti difficili degli otto anni di Obama alla Casa Bianca, quelle presentate alla «convention» e che rivedremo ancora chissà quante volte: i momenti di angoscia, la solitudine del capo chiamato a prendere in continuazione decisioni difficilissime, spesso di vita o di morte. Può toccare a un re dei «reality»?